Solo tre film nuovi a Prato questa settimana. E non ci sono dubbi: il film della settimana è BULLET TO THE HEAD. Perché – merce rarissima – può mettere d’accordo i cinefili e gli appassionati di schianti, gli intellettuali e i truzzi. Per tre buoni motivi.

1) Dietro la macchina da presa non c’è l’ultimo degli stronzi, ma Walter Hill, il re dell’action made in Usa, quello di The Warrior, di 48 ore, di Driver l’imprendibile, quel film melvilliano e meraviglioso che in troppi pochi conoscono e che quel testa di #!%%& di Refn ha saccheggiato a piene mani con Drive (sì – tra parentesi – il trailer di Only God Forgives è fighissimo, speriamo che il danese abbandoni le pose e i sentimenti a favore degli schianti). Un ritorno, quello di Walter Hill, atteso per undici anni, dopo il discreto Undisputed.

2) Davanti alla macchina da presa c’è Stallone, che si è rifatto la faccia (e non solo in senso metaforico) dopo Rocky Balboa, John Rambo e The Expendables. Un po’ meno truccato che nel sequel dei Mercenari (dove faceva a gara di ombretto con Van Damme), ma comunque fintissimo, è ormai diventato un relitto mitologico, un’icona che unisce nostalgia, ironia, la malinconia di un paio di occhiaie giganti ad un fisico in grado di competere con le nuove leve, di resistere alla “rottamazione”.

3)Il film spakka. Come tutti i film in cui criminali e sbirri si mettono contro criminali più stronzi. Di più perché Hill gira alla vecchia maniera. Negli Stati Uniti d’America il film è stato vietato ai minori per la presenza di forte violenza, immagini cruente, linguaggio scurrile, scene di nudo ed uso di droghe. C’è tutto insomma. Anche se ci chiediamo perché la distribuzione italiana abbia scelto il titolo di JIMMY BOBO – BULLET TO THE HEAD.

COME UN TUONO. Ryan Gosling in pochi anni si è imposto come icona incontrastata per gli hipster di tutto il mondo. Grazie al giubbottino di Drive, ad una manciata di commedie Sundance e ad un talento innegabile: quello di piacere senza sforzi alla macchina da presa. Il che gli consente di mantenere la solita espressione di fronte alle più disparate situazioni. Ed è un bene. Non urla come gli sguaiati del cinema italiano per dire, né deve dimostrare al mondo di essere bravo oltre che fico, come Di Caprio e magari gli andrà in culo a Di Caprio vincendo l’Oscar senza battere ciglio, mentre l’altro sbraita come una zitella in piena botta ormonale. Gosling ha il carisma dei fichi. Non è Marlon Brandon per dirla come il Babbo di Benigni, non è – ancora – il James Dean della generazione dubstep, ma ha un che dei ragazzi coppoliani. Per questo qualche produttore ha avuto la bella idea di fargli fare il motociclista, in questo film, non esattamente memorabile, che è una specie di riproposizione minore, senza sperimentalismi di Rusty il selvaggio. La sceneggiatura traballa più volte, ma di buono c’è che almeno osa sul terreno del melodramma e di bono c’è Eva Mendes, compagna nella vita di Ryan, il neo più sexy dai tempi di Cindy Crawford, che si conferma una brava attrice.

BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE è un Moccia Cancer Movie, un film di adolescenti con la musica dei Modà, attori giovani e belli (la francese, rossa di capelli, Gaia Weiss, clamorosa, la promettente Aurora Ruffino già vista ne La solitudine dei numeri primi e il capellone scamarciano Filippo Scicchitano) alle prese con un problema più grosso di loro, più terribile della musica di Modà: la malattia della rossa, di cui il capellone è innamorato. Le ragazzine piangeranno e gradiranno molto. E le ragazzine – si sa – spadroneggiano il mercato. Tratto dall’omononimo bestseller di Alessandro D’Avenia (titolo orribile tra l’altro, un milione di copie vendute e pubblicazioni in mezzo mondo, per una robetta degna di Susanna Tamaro). Campiotti, il regista, non è un bischero, ma l’ennesimo ad arrendersi al sistema dei film di merda italiani, partito come aiuto a Monicelli e finito a fare fiction ambiziose per la tv e film poco ambiziosi per il cinema. Tant’è che la produzione gli impone i soliti Cecilia Dazzi, Insinna e i sempre più temerari Modà, in testa alla classifica degli insostenibili per il modo in cui uniscono l’enfasi musicale con gli azzardi poetici #§1%%! nei testi che scrivono. Immaginateveli a musicare una love story con un tema delicato simile. Brrrr. Sarà un successo.