Molti racconti brevi sembrano puntare in una direzione, sembrano essere frecce interamente tese alla frase finale, che ribalti, o sovverta, il senso di tutto quello che si è letto. Non è una valutazione di merito, sia ben chiaro, è una constatazione, anzi, a volte cado anche io, da scrittore, in questo meccanismo. Non fa eccezione questo “La mia orchestra” (sottotitolo: “Per caso vuol venire a letto con me?”) della giovane Chiara Agostini: una scrittrice (metaletteratura) si prepara ad affrontare l’ennesimo rifiuto editoriale per le sue favole… ma il problema sembra risiedere altrove…

La mia orchestra

Per caso, vuol venire a letto con me?

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. È il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte. «Allora?» mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
«Dunque, l’idea è quella che già le avev…», inizio, gesticolando nervosa.
Mi passo una penna tra le mani sudaticce. È difficile convincere un editore a darti una chance. Oralmente, intendo, con un colloquio. Faccia a faccia: occhi suoi contro occhi miei.

Un lieve rumore interrompe le mie paure: lo sento aspirare prepotentemente per poi sfilarsi la sigaretta dalle labbra. È un attimo: uno sbuffo di fumo mi si spalma sul viso come vernice fresca appena stesa. Non mi piace il fumo, non mi è mai piaciuto. Mi sa di sporco, e adesso di certo non mi aiuta.
Inizio a tossire forte.
Mi scuoto la mano davanti alla faccia, aiutandolo a svanire nell’aria plumbea.
L’editore scatta in avanti, mortificato: «Oh, mio Dio! Mi scusi, signorina Astro, sono desolato!»
Si avvicina verso di me, evidentemente in difficoltà, e mi batte due colpi sulla schiena.
Non so perché, ma in quel momento, mentre la tosse mi colora il viso, mi viene in mente quella frase strana che dice che se qualcuno ti soffia del fumo in faccia sia perché voglia venire a letto con te. Credo proprio che non sia questa la situazione più appropriata per starci a pensare. Non l’ho neanche mai visto in faccia, questo tizio.
Cerco dunque di riprendermi.
«Non si preoc-cu-cu-pi…», ansimo.
In un baleno d’imbarazzo, ognuno riprende il proprio posto: l’editore indietreggia, e io mi sistemo ancora un po’ scossa sulla mia sedia nera dall’altra parte della scrivania.
«Le stavo dicendo – riprendo – che l’idea è quella che già le avevo accennato durante la telefonata di qualche giorno fa. Tra le altre cose, la ringrazio molto per avermi ricevuto, insomma…», avanzo timida.
«Si figuri, signorina. Le sue proposte mi sono parse interessanti, non c’è che dire…». Lo dice con voce ambigua, leggermente viscida. Come se, da buon equilibrista quale in effetti è, camminasse sul filo del rasoio, evitando di sporgersi troppo ai margini.
Sorrido, in silenzio. Ho imparato negli anni ad inquadrare le voci degli uomini.
Mi sento il suo sguardo sul décolléte. Riesco quasi ad annusare il sapore di quei suoi occhi affamati. Li vedo scendere lungo la linea delle spalle, risalirla in direzione contraria, per perdersi poi nell’incavo tra i miei due tondi seni.
Istintivamente, mi abbottono il maglioncino rosso.
Dopo una pausa impercettibile, lui riprende.
«Vede signorina, mi permetta. Le sue fiabe sono sicuramente curiose, allegre. Sono convinto che i nostri piccoli lettori apprezzerebbero pienamente ciò che lei crea. La trama è semplice, la suspense di certo non viene a mancare, i personaggi sono ben costruiti… e ogni storia insegna qualcosa, per cui da un punto di vista stilistico direi che siano perfette, ancor prima di essere scritte!»

Continuo a sorridere, sempre in silenzio, e aspetto. Ora la voce si fa più vicina. Più calda. Il dorso del naso mi inizia a sudare, facendo scivolare gli occhiali scuri sempre più giù.
«Vede, è solo che manca quel tocco in più. In lei. Solo in lei, ecco. Niente di personale, si capisce, ma si metta nei nostri panni. Non possiamo mettere sul mercato un libro scritto da una persona nelle sue condiz…»
Il resto sono parole sentite e risentite.
Venti minuti dopo, sono già a casa.
Sento lo squillo consueto provenire dalla sala da pranzo.
Mi sposto con cautela, appoggio il bastone sulla sedia vicina a me, e rispondo al telefono, con voce mono-tono. È Matilde, la mia amica del cuore, che vuole sapere com’è andata.
«Come vuoi che sia andata, come sempre», le riassumo, arrotolandomi il filo della cornetta tra le dita.
Stiamo un po’ a parlare. Lei ha l’ovvio compito di consolarmi. Mi dice che prima o poi qualcuno mi darà una possibilità, e allora diventerò la migliore scrittrice del pianeta. Ridiamo insieme immaginando il mio improbabile successo futuro.
Un’ora ed un quarto vola via così. Al termine della chiamata la saluto, la stringo virtualmente lungo la linea che collega le nostre voci simbiotiche, e metto giù.
Riprendo il bastone, con leggera fatica mi alzo in piedi e contemplo l’abisso davanti a me.
Sorrido.

Proprio lì, sulla parete di fronte, so che è appeso un pannello bianco sul quale lampeggia un aforisma color blu oceano, di Italo Calvino: “Chi ha l’occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi”.
Mi è sempre piaciuto il suono di quella frase. I fonemi si incastrano alla perfezione, creano un’armonia elegante che balla da sola, disinibita e sensuale. Per quello l’ho appesa. Perché mi piace che in casa mia ci sia sempre una piccola orchestra pronta ad esibirsi per me, in ogni occasione. Tu la chiami con uno sguardo e lei arriva, accorda gli strumenti ed inizia a suonare, pronta o no che sia. Sempre la stessa aria. Il fatto è che nessuno la sente come la sento io.
«Chi – ha – l’occhio, trova – quel – che – cerca – anche – a – occhi – chiusi», ripeto ad alta voce mentre batto a ritmo il bastone sul pavimento.
Non l’ho mai visto, quel pannello.
Ma so che c’è.
E mi strappa sempre un sorriso amaro.
Perché so che come quel quadro c’è, e sta fermo là, immobile, a rimettermi in carreggiata dopo ogni incidente, così, allo stesso modo, da qualche parte c’è un diavolo di editore disposto a scommettere sull’estro e la fantasia di una persona totalmente cieca.


Chiara Agostini.