Cristina Brachi ci presenta la sua “Storia lunga un’estate”. E in effetti non si può certo dire che il racconto in questione sia corto. Anzi. E, sia detto senza cattiveria e la nostra amata lettrice non se n’abbia a male, ma in questo caso si premia più la buona volontà che la qualità dell’opera, la cui prosa risulta un po’ ingenua in vari passaggi. Ciononostante, tra i lati positivi siano da annotare la grande costanza dell’autrice (io per esempio non riesco bene a scrivere racconti così lunghi!) e la possibilità che il racconto acchiappi soprattutto i più piccoli tra voi . In ogni caso, eccovi l’esotica avventura di Elena e i suoi amici, vi lasciamo in loro compagnia e vi diamo appuntamento alla settimana prossima, sempre su Piesse.

Una storia lunga un’estate.

CAPITOLO 1
Io sono Elena e finalmente e’ arrivato il grande giorno, sto per partire per il Messico con i
miei genitori: per loro un viaggio di lavoro, per me un viaggio di avventura. Mamma è
archeologa e babbo è pittore e affreschista, perciò questo viaggio è stato programmato
insieme. A mamma, dopo essere stata trasferita o meglio sballottata da un museo all’altro
con contratti, dice lei, da fame, hanno offerto di partecipare a nuovi scavi in Messico e più
precisamente nel sito di Bonampak nello stato del Chiapas. E babbo è felice di
accompagnarla perchè è sempre stato un suo grande desiderio vedere gli affreschi che ci
sono dentro al Tempio delle pitture murali. Mamma dice che questo non è un sito molto
importante per l’archeologia, ma per lei è la miglior cosa che le sia capitata da quando si è
laureata, la miglior cosa in assoluto e perciò questo è diventato il più bel sito archeologico
del mondo. Babbo è contento perchè finalmente farà un viaggio con mamma e con me,
tutti insieme e anche perchè là dipingerà paesaggi diversi e cose diverse e così darà una
svolta decisiva al suo lavoro, o almeno lui dice così. A me pare che non abbia bisogno di
cambiare, mi piacciono i suoi quadri, specialmente quelli che ritraggono gli animali e le
dolci colline della nostra terra, così uguali e così diverse a seconda della stagione, mi
piacciono soprattutto quelli che ritraggono le colline quando il grano è maturo e c’è tutto
quel bel giallo dorato che riscalda il cuore. Lui mi prende in giro quando gli dico così e mi
dice che la nostra terra è bella in tutte le stagioni, in tutti i suoi colori e, insomma, è bella
in tutte le salse, mi dice proprio così, in tutte le salse.
Mi hanno dato un libro da leggere sui Maya e principalmente su questo sito, ma dopo tutte
quelle date e tutti quei nomi strani non ci capivo più niente, allora sono andata avanti
leggendo una pagina e saltandone cinque, anche perchè io non voglio mica fare
l’archeologa da grande; ci mancherebbe altro, ho solo dodici anni ma so di preciso che
non farò l’archeologa, forse la pittrice sì, perchè mi affascina l’idea di fermare sulla tela un
particolare paesaggio, un particolare momento come una fotografia, ma non sono sicura
nemmeno di questo, ma poi mica ci devo pensare adesso a quello che farò da grande,
adesso devo solo pensare a prepararmi per partire verso questo posto lontanissimo,
magico e sconosciuto.
Il caldo è opprimente, sono quindici giorni che siamo arrivati e c’è tanto caldo. Babbo dice
che è l’umidità a causare quest’afa insopportabile, loro sono così contenti che, sono
sicura, non la sentono nemmeno, ma io no, io la sento, eccome se la sento! A volte mi
sembra di non poter respirare, ma loro no, respirano, eccome se respirano, vanno da un
luogo all’altro come schegge, mamma intorno a tutti i suoi vecchi muri a cercare quel
particolare dettaglio, quella particolare scritta, quell’altra particolare incisione o scultura. A
me sembra un’altra persona, parla di cose che non capisco, me le dice come se io fossi
un’archeologa come lei, ma io riguardo ai Maya so poco, quel poco che ho letto a pizzichi
un po qui un po là e perciò mi perdo subito e non ci capisco più niente. Babbo è intento a
trovare l’angolo adatto, quello con nè poca nè troppa luce, quello dove s’intravede un pò di
vecchio e un pò di nuovo, cerca anche persone particolari, perchè ha detto che lui vuol
riportare a casa anche tutte le tradizioni del luogo impresse sulle sue tele e anche di più.
Io quello che è questo di più non lo so, ma non mi sforzo nemmeno di pensarci tanto,
piano piano lo troverà da sè. L’unica cosa che mi rende felice e mi consola un pò è che ho
trovato degli amici, specialmente due, Chaac e Maya fratello e sorella che hanno più o
meno la mia età. All’inizio è stato un pò difficile con la lingua, ma poi, a parte qualche
parola, riusciamo a capirci abbastanza bene: dove non arriva la parola arrivano i gesti e
comunque, come dice la mamma, alla nostra età non ci sono barriere di lingua a dividerci,
ci basta uno sguardo per prendere subito il significato di una frase, di un discorso e così
siamo diventati inseparabili.
E la cosa bella è che andiamo tutti i giorni, vista la mia insofferenza per il caldo, in un
laghetto lì vicino, dove c’è una bella cascata di acqua fresca e frizzante e perciò ci
divertiamo tantissimo a fare bagni e a esplorare i piccoli anfratti nelle rocce lì intorno ed è
bellissimo stare con i piedi nell’acqua oppure tuffarci o schizzarsi a vicenda ridendo e
scherzando, finchè non arriva la pioggia puntuale quasi tutti i giorni, ma non dà fastidio
anche perchè abbiamo trovato un luogo dove rifugiarci proprio dietro la cascata, non che
ci sia un gran fresco, ma è bellissimo stare al riparo dalla pioggia e vedere attraverso un
velo d’acqua che scende velocissima e ci stravolge il senso delle cose, è come guardare
tutto ciò che ci circonda con un filtro in movimento che cambia continuamente. Abbiamo
preso l’abitudine di portarci dietro pranzo e merenda così da non dover tornare agli alloggi
continuamente e restare lì ad assaporare tutte le nuove scoperte che facciamo. Anche se
questo la mamma me lo ha concesso con un pò di fatica, perchè aveva paura che ci
perdessimo, ma io l’ho rassicurata dicendo che ho due guide bravissime, con loro mi sento
al sicuro e perciò non c’è niente di cui preoccuparsi. Ma lo zainetto lo prepara lei al mattino
e ci mette tanto di quel mangiare dentro che sono sicura mi basterebbe per una settimana
intera, ma io la lascio fare perchè già vedo il sorriso dei miei amici quando comincio a tirar
fuori tutte quelle leccornie e facciamo insieme spuntini, pranzi e merende.
Mi hanno detto che in lingua Maya Bonampak, il sito archeologico dove siamo, significa
“Muro dipinto”, proprio per le pitture che ci sono nel Tempio. Sono stata a vederle: si tratta
di tre stanze sull’acropoli dipinte ad affresco, dove si vede una cerimonia con i
rappresentanti della corte con un bambino, che dovrebbe essere l’erede al trono e tutte le
figure sono ornate con collane fatte di conchiglie, poi c’è il trono del re e tre capi tribù con
grandi copricapo piumati, ci sono musicanti con trombe e tamburi e anche con corazze di
tartaruga, c’è un combattimento fra uomini armati e uomini disarmati e nudi che poi
vengono presentati al re per essere sacrificati e altre scene che rappresentano proprio la
festa prima di questi sacrifici. Se penso a questi sacrifici umani mi viene un pò di paura,
ma poi passa perchè tutto ciò avveniva più di mille anni fa e adesso è solo storia. Ecco la
storia, questo mi piace quando la sera ci riuniamo tutti insieme e i colleghi di mamma mi
raccontano di questo straordinario popolo, della loro cultura così brillante, della loro
scrittura, del loro calendario, del loro sistema di numerazione e della loro architettura. Mi
fanno vedere disegni e foto delle loro divinità, che i Maya hanno riprodotto sui monumenti
e sui manufatti, infatti loro adoravano molti dei che pensavano fossero intermediari con un
Dio supremo. Tutto quello che facevano, che coltivavano aveva uno scopo preciso, tutte le
cose, terra, sole, luna, stelle, acqua, tuoni, fulmini, terremoti, animali erano stati creati da
dèi specifici, ogni cosa aveva un dio e non mancano le leggende su questi dei. Ne ho
sentite diverse ma si sono un pò confuse nella mia mente, però è bello stare ad ascoltarle
ed essere qui, proprio in uno dei luoghi che hanno creato questi miti. Vado a dormire con
tutti questi racconti nella testa e molte notti sogno guerrieri piumati, eroi che salvano la
terra, eroi gemelli che sconfiggono gli dei portatori di malattie, eroi del grano che
stabiliscono un patto con gli dei del tuono e del fulmine affinchè il raccolto non venga
rovinato. Ma quando mi alzo al mattino tutto scompare e l’unica traccia maya la vedo nei
tratti del viso dei miei amici con i quali anche oggi andrò in giro a scoprire nuovi posti e
vedere cose nuove, eh si, perchè per me anche un fiore, un uccello, un animaletto strano
sono tutte cose che in Italia non ho mai visto e che mi attraggono tantissimo.
E poi ci sono le farfalle: tante, coloratissime e meravigliose e io mi perdo letteralmente
nelle loro danze, nei loro battiti di ali, mi piace guardarle alzarsi in volo, fermarsi su un
fiore, su una foglia, a volte corro insieme a loro, le inseguo, faccio piroette e poi cado
distesa sull’erba e le guardo volare sopra di me. Vorrei essere una di queste farfalle e
librarmi con la loro grazia e la loro eleganza in questo cielo adesso limpido e guardare
sotto di me quel fiore giallo oro dove andrò a nutrirmi, quella goccia d’acqua vicino alla
quale mi fermerò per dissetarmi, quella foglia così verde dove mi riposerò e, così in alto,
da dove potrò vedere altri fiori, altre gocce, altre foglie sempre più lontane.
I miei amici sono arrivati e con i nostri zainetti corriamo verso il laghetto, che ormai è quasi
diventato la nostra meta giornaliera. Ho portato anche un pò di fogli e matite per
cominciare a disegnare qualcosa, di nascosto al mio babbo perchè voglio fargli una
sorpresa per quando partiremo. Voglio disegnare qualcosa di diverso e so già cosa, infatti
andrò dietro la cascata e cercherò di riportare sul foglio la natura vista attraverso quel velo
trasparente, so che sarà molto difficile anche perchè non sono brava come lui, ma sono
decisa a provare e vedere quello che ne verrà fuori bello o brutto che sia.
Siamo arrivati al laghetto, ci sediamo sull’erba, poi ci sdraiamo per vedere le nuvole che
passano sopra di noi nel cielo e ci divertiamo a scorgere in esse animali, cose, forme
strane e non ci rendiamo conto che il cielo si è velocemente fatto scuro, le nuvole sono
adesso grigie e molto più gonfie e la pioggia arriva improvvisa così corriamo proprio dietro
la cascata per ripararci. Non è che sia un posto molto comodo, perchè, anche se ci ripara
dalla pioggia, è molto umido, ma a noi non importa , vuol dire che terremo i nostri zainetti
sulle spalle e poi non volevo venire proprio qui per fare il mio disegno? Così tiro subito
fuori un foglio e una matita e comincio a guardarmi intorno per capire da dove iniziare,
perchè è sempre questo il difficile: l’inizio. Poi improvvisamente arriva una folata di vento e
il foglio mi scappa di mano, guardo e vedo che si è infilato in un anfratto in fondo a questa
specie di grotta, vado a recuperarlo ma non ci riesco, allora i miei amici mi danno una
mano e mi calo giù, giù sempre più giù per cercare di prenderlo. Ma improvvisamente
cadiamo tutti e tre, le nostre mani cercano appigli a cui aggrapparsi ma inutilmente,
scivoliamo, scivoliamo, scivoliamo e in un battibaleno una roccia si apre, ci fa passare e si
richiude. Ma dove siamo finiti? Non riusciamo a capire cosa sia successo e quello che è
ancora più terribile non riusciamo assolutamente a vedere da dove siamo passati per
poter tornare indietro.
Ci guardiamo, ovvero tentiamo di guardarci in questo buio che oltre tutto ci fa anche
paura, ci mettiamo a urlare aiuto, aiuto, ayuda, ayuda, ma logicamente chi ci sente?
Nessuno e nessuno sa neppure dove eravamo! Ci rialziamo, ci togliamo la terra dai
capelli, dalle spalle, dagli abiti, ma dove siamo? Mi viene in mente che ho una piccola
torcia nello zaino, la prendo e faccio luce: siamo in una grotta non molto grande, mando il
fascio di luce sul soffitto, sulle pareti, ma niente, non vedo niente che possa indicare il
punto da dove siamo passati, ma come è possibile? Mentre faccio andare la luce in tutte le
direzioni, illumino anche il volto dei miei amici, vedo nei loro occhi lo stesso sgomento e la
stessa paura che provo io. Poi sentiamo un rumore, è rumore di acqua, ci spostiamo di
qualche metro e vediamo un rigagnolo d’acqua che corre verso la direzione opposta a noi.
E’ senz’altro acqua che filtra dalla cascata e poi andrà da qualche parte, almeno lo
speriamo, perchè cominciamo a muoverci nella stessa direzione di essa. Non diciamo
niente ma in cuor nostro speriamo che l’acqua ci porti fuori da qualche altra parte. E
invece non ci porta fuori, ma ci porta verso un passaggio molto stretto, dove carponi e a
testa bassa percorriamo un pò metri per poi ritrovarci in una grotta più grande. Stiamo
molto attenti a non bagnare lo zaino, abbiamo i pantaloni e le scarpe motosi, ma non
importa, l’importante adesso è salvare gli zaini dove ci sono le uniche e sole cose da
mangiare e che non ci possiamo permettere di perdere.
Seguiamo il corso d’acqua e ci rendiamo conto che adesso la grotta è molto più grande,
possiamo camminare a testa alta, certo facendo attenzione a dove mettiamo i piedi,
perchè l’ultima che vogliamo è farci del male cadendo. Dobbiamo cercare di andare avanti
tutti e tre insieme, più uniti possibile perchè tutti e tre abbiamo una paura tremenda di
rimanere da soli. Questo lo capisco anche se stiamo zitti, infatti ci cerchiamo le mani a
vicenda, ce le stringiamo fino quasi a farci quasi male.
Andiamo avanti fra silenzi, urla, strilli, cerchiamo di camminare il più veloce possibile per
arrivare in fondo a tutto questo e trovare un’uscita. Ma il fondo non lo vediamo,
attraversiamo sempre grotte più o meno alte, ma il buio è così fitto che mi si stringe il
cuore dalla paura. Non so quanto tempo è passato, non so quanto abbiamo percorso, so
solo che sono tanto stanca da non poter più continuare a camminare, mi sento i piedi
bagnati dentro le scarpe e mi sembra anche di non poter più respirare, mi fermo e guardo
Chaac e Maya: anche loro sono nelle mie stesse condizioni. Ci fermiamo, ci guardiamo e
ci mettiamo a piangere tutti assieme. E’ un pianto liberatorio, ci voleva, eh si ci voleva
proprio, era troppa la tensione accumulata ed io mi sento in colpa, oh se non avessi preso
il foglio! Comincio a scusarmi con loro, a dire che è colpa mia di tutto quello che ci sta
accadendo, parlo in modo convulso, parlo in modo veloce, non mi rendo neanche conto se
loro capiscono tutto quello che dico oppure no. Loro mi stringono le mani e mi dicono
parole che non riesco ad afferrare, perchè sono nello stato d’animo in cui non si vuol
capire niente ma solo dar sfogo alla propria rabbia e alla propria frustazione per non
sapere cosa fare.
Poi piano piano mi calmo, loro mi sorridono, aprono gli zaini e prendono qualcosa da
mangiare, così facciamo uno spuntino in una situazione che ha dell’incredibile: con la pila
accesa prepariamo qualche panino e poi la spengiamo per mangiare, perchè abbiamo
solo questa e quando la batteria finirà, rimarremo completamente al buio.
Questa pausa ci ha fatto bene a tutti, ci voleva davvero. Riprendiamo a camminare
sempre seguendo il corso dell’acqua e, all’improvviso dietro una curva, arriviamo in una
grotta molto grande dove c’è un pò di chiarore. Infatti sul soffitto in alto, molto in alto c’è
un buco da dove filtra un pò di luce del giorno.
Vedere questa tenue luce ci riempie di gioia, cominciamo a urlare con tutta la voce che
abbiamo nella speranza che ci sia qualcuno fuori e che ci possa sentire, poi restiamo in
attesa, di che cosa? Di qualcuno che si affacci da quel piccolo buco e che ci dica:- Ah
ecco dove vi siete cacciati! Adesso veniamo a prendervi!
Pura follia !
Non c’è nessuno che ci possa sentire e da quel buco nessuno si affaccerà.
Non ci resta altro che continuare a seguire il corso d’acqua, specialmente ora che questa
poca luce ci aiuta almeno ad attraversare tutta questa grotta senza dover accendere la
pila.
Non so quanto abbiamo camminato, siamo stanchi e affamati. Ci fermiamo a riposarci, a
mangiare qualcosa e cerchiamo anche di dormire un pò, anche se non abbiamo la minima
idea del tempo che è passato: sarà ancora giorno? Sarà notte? E chi lo sa!
Penso ai nostri genitori, chissà come saranno tutti preoccupati, chissà dove andranno a
cercarci e con questi pensieri mi addormento di un sonno agitato, dove nebbie mi
inghiottono senza lasciarmi uno spiraglio di via d’uscita, dove sento voci lontane che mi
chiamano ma non riesco a rispondere.
Ci svegliamo di soprassalto tutti insieme, abbiamo sentito come un boato e svelti
riprendiamo il cammino fiduciosi di trovare qualcosa di nuovo che ci possa in qualche
modo aiutare.
Camminiamo per un pò e ci ritroviamo vicino ad un torrente più grande, le cui acque
scorrono veloci e con forza maggiore di quelle del ruscello che ci ha accompagnato finora.
Ma c’è un problema, se fino a questo momento camminavamo speditamente, adesso è più
difficile, perchè invece della terra ci sono i sassi e anche molto scivolosi, perciò dobbiamo
fare molta attenzione a dove mettere i piedi, inoltre la grotta si è molto ristretta e a volte
dobbiamo proprio camminare in acqua per andare avanti. Poi c’è un’altra cosa che ci
lascia perplessi: le pareti rocciose sono tutte bagnate come se ci sia passata acqua più
alta e quel rumore che avevamo sentito? Quello strano boato? Non riusciamo a capire,
beh l’acqua scorrendo più velocemente fa rumore, ma non ha niente a che vedere con
quello sentito e che ci ha svegliati.
Comunque continuiamo imperterriti: siamo sicuri che questo fiume più grande ci porterà
veramente a qualcosa di buono!
Qualcosa di buono!!! Tutto accade improvvisamente: l’acqua comincia ad aumentare, non
riusciamo a stare più ritti e cadiamo in continuazione, adesso capisco il boato a cosa era
dovuto, è il rombo sordo dell’acqua che arriva in quantità sempre maggiore.
Cerchiamo di tenerci per mano, ma uno ad uno ci arrendiamo a questa forza che è
arrivata repentina e che non ci dà tregua. Mi ritrovo sott’acqua, non respiro, mi sembra che
i polmoni stiano scoppiando, non respiro, ho paura, paura, poi ecco che mi sento spinta
verso l’alto e finalmente la bocca si apre, finalmente una boccata d’ossigeno. Sono pochi
attimi, è tutto buio, non riesco a vedere niente, neanche i miei amici, ma sento che non
sono lontani da me, sento il loro affannoso respiro, le loro piccole urla soffocate dall’acqua
che ci sballotta senza che possiamo fare qualcosa. Penso di essere trascinata da rapide
perchè non riesco ad aggrapparmi a niente, sfioro i sassi con le mani ma non riesco a
trattenerli. Non so quanto dura questo carosello ma so che non gliela faccio più, le braccia
e le gambe sono intormentite, ho tanto freddo, mi fa male la testa, perchè l’ho picchiata più
volte contro questi sassi. Poi non ho più la forza di fare niente, neanche di respirare quelle
poche volte che la bocca esce fuori dall’acqua. Mi lascio trasportare via, inerte, come un
fantoccio di pezza e l’ultimo pensiero va ai miei genitori: mamma, babbo, mi dispiace
tanto, urlo i loro nomi e non mi rendo conto se urlo con la bocca o con il cuore, perchè il
buio totale è arrivato e non sento più niente.

CAPITOLO 2
Sono circondata da tante persone, ma gli occhi ancora non si vogliono aprire, sento le
loro voci lontane, lontane, ma non riesco a capire cosa dicono. Sono confusa, ho dolore in
tutte le parti del corpo. Qualcuno tenta di alzarmi la testa e mi accosta una ciotola alla
bocca. Non riesco a bere, mi sembra di essere bloccata, sento il liquido che esce dalla
bocca e cola lungo la gola, qualcuno mi asciuga delicatamente. Respiro, sì respiro,
adesso mi riesce facile respirare, ma gli occhi ancora sono chiusi e sento un torpore che
diventa sempre più intenso, le voci che prima sentivo adesso sono scomparse, ho bisogno
di questa tranquillità, sento un leggero calore e poi più niente.
Non so quanto ho dormito, ma adesso mi sento bene, provo ad aprire gli occhi piano
piano, le palpebre sono ancora pesanti ma riesco a focalizzare qualcosa: nella penombra
vedo i miei amici , anche loro distesi su giacigli, immobili stanno dormendo, vedo la stanza
dove qualcuno ci ha sistemati: è spoglia senza mobili tutta in terra battuta e pietra. Provo a
muovere le mani, poi le braccia e infine le gambe, sono ancora indolenzita ma tutto si
muove a comando e questo mi rassicura, perchè vuol dire che non ho ossa rotte, avrò
contusioni, avrò lividi in tutte le parti del corpo, ma niente che non possa guarire in pochi
giorni.
Poi sento un gemito, mi volto lentamente, molto lentamente, perchè la testa fa molto male,
chiamo la mia amica che mi risponde con una flebile voce.
– Maya, tutto bene?
– Muy bien, muy bien!!
Non passano dieci secondi che sento anche la voce di suo fratello e quel: Bien! Bien! mi
solleva molto il morale. Saremo tutti e tre acciaccati e confusi, ma quel che conta è che
siamo ancora insieme.
– Ma dove siamo finiti? Avranno avvertito i nostri genitori che siamo sani e salvi?
Cerco di alzarmi, ma la testa mi gira, comunque sono riuscita a mettermi a sedere su
questo giaciglio, la paglia è fresca, mi rendo conto adesso che in questa stanza c’è caldo
sì, ma sopportabile, si respira bene, non c’è quell’afa che al villaggio non dava un attimo di
tregua. La luce è fioca, dall’entrata arriva un tenue chiarore, ma non luce del giorno,
saranno forse delle torce accese. Entra una donna, vestita con panni molto colorati e al
collo ha una collana fatta di conchiglie, i capelli sono neri e lunghi, ci guarda e sorride, ha
in mano una specie di vassoio dove ci sono tre ciotole con qualcosa di liquido fumante. Ne
lascia uno a ciascuno di noi con un cucchiaio di legno dicendoci delle parole
incomprensibili, cioè incomprensibili per me, ma forse non per i miei amici, che però si
guardano e rimangono un pò sconcertati. Mi accorgo che anche loro non hanno capito
bene, ma forse saremo capitati in un villaggio dove c’è un dialetto diverso. Mamma mi ha
spiegato che ci sono tantissimi dialetti, un pò come in Italia, e come da noi se alcune
persone stanno sempre in un luogo chiuso, senza avere rapporti con altre persone
lontane, finiscono per parlare solo e soltanto il proprio dialetto.
Lei sorride e abbassa continuamente la testa come per dire sì, come per dire di mangiare
la zuppa, che è buona e ci farà bene.
Effettivamente ha ragione, già l’odore mi attira e mentre comincio a mandare giù qualche
cucchiaiata, mi sento sollevare: ci voleva proprio qualcosa di caldo e di buono.
E’ ottima, riconosco alcuni sapori, ma devo dire che è veramente ottima e oltre tutto ci
voleva un bel pasto caldo. Dentro la zuppa ci sono alcuni pezzetti di un qualcosa che
sembra focaccia e tutti e tre mangiamo con avidità e con gusto. Entra un’altra donna con
ciotole più piccole piene di acqua e ce le porge con un gran sorriso.
– Grazie, grazie!!!
Lei, come l’altra, ci dice alcune parole come che non capiamo, ma appena abbiamo finito
di mangiare, prende le stoviglie e ci fa cenno di stenderci per dormire. Cosa possiamo fare
se non ubbidire? Ci stendiamo e cerchiamo di riposare. Dopo poco ritorna e ci pulisce tutte
la varie escoriazioni che abbiamo sul corpo, specialmente sulle gambe. Le lava e poi ci
spalma una specie di pomata, che ci dà subito un sollievo inaspettato.
Il sonno non arriva subito, ma d’altra parte mica ci possiamo alzare e andare a giro a
curiosare dopo tutta la gentilezza dimostrataci, oltretutto con le gambe che tremano
ancora e che fanno ancora tanto male, così mi metto tranquilla e piano piano il sonno
dolcemente arriva.
Mi sveglio con la luce del giorno che entra dalla porta e vedo un giovane seduto vicino a
noi. Mi guarda e mi sorride e sorpresa, sorpresa mi dà il buongiorno in italiano.
Mi metto a sedere e comincio a tempestarlo di domande.
-Dove siamo?
-Avete avvertito i nostri genitori?
-Che giorno è oggi?
Lui sorride e ci risponde:
– Calma, calma ogni cosa a suo tempo. Adesso dovete riposarvi e cercare di rimettervi
bene in salute, poi vedremo cosa possiamo fare.
– Cosa vuol dire vedremo cosa possiamo fare? Basta chiamare i nostri genitori, loro
vengono a prenderci e tutto è sistemato! E’ così semplice!
– Non è così semplice come pensi Elena. Comunque vedremo quello che si può fare.
– Come fai a sapere il mio nome?
– Tre ragazzi scomparsi Elena, Maya e Chaac. E chi altri potete essere?
Guardo con aria interrogativa i miei amici. Anche loro fanno tante domande, ma dai loro
sguardi capisco che non ottengono le risposte desiderate.
Il giovane si alza, io gli chiedo il nome, lui mi guarda e mi risponde Juan, chiamami Juan.
Ci alziamo e tra vari ahi, riusciamo a fare alcuni passi. Maya ha una guancia un pò gonfia,
Chaac ha un taglio sulla fronte, io ho un livido enorme sull’avambraccio e mi sento un
taglio sulla nuca. Insomma dove ci guardiamo vediamo lividi e basta passarsi le mani sul
proprio corpo per sentire gonfi, tagli e dolore. Mentre facciamo tutte queste esplorazioni ci
mettiamo a ridere, anche se da ridere c’è poco anzi ci sarebbe da piangere, perchè
all’entrata ci sono quelle due donne che, sedute, ci fanno come dire la guardia e
scommetto che, se provassimo a uscire, non ce lo permetterebbero.
– Ma siamo prigionieri? Ma perchè? Ma dove siamo finiti?
Maya e Chaac cercano di farsi capire in messicano, ma quelle sorridono e parlano nella
loro strana lingua. Io penso che sia tutta una finzione, che capiscono benissimo ciò che i
miei amici stanno chiedendo, ma volutamente non vogliono capire nè farsi intendere.
E così è passato un altro giorno, beh chiamiamolo giorno, ma il fatto è che la luce del sole
non entra in modo prorompente, ma se mai in modo offuscato. Penso sia dovuto al fatto
che questa stanza è situata lontano dalla fonte di luce forse siamo all’interno di un
qualcosa che non riesco a comprendere, forse in una grotta, perchè nelle pareti ci sono sì
delle pietre, ma poi è tutta terra battuta. Comunque anche questa sarà una domanda da
fare a Juan quando ritornerà qui da noi. Ne ho preparate tante di domande, anche se tutte
convergono su “ Ma dove siamo?” e “Quando potremo andare via?”
Perchè questa faccenda adesso si sta facendo un pò troppo esasperante. Noi siamo
contenti che ci danno da mangiare cose buone e ci curano bene, infatti due volte al giorno
viene la ragazza che ci massaggia i lividi con una specie di olio e ci medica le ferite, anche
se adesso dovremmo chiamarle cicatrici, con una pomata che sta facendo miracoli.
Ma tutto questo ora non ci basta più, ci stiamo molto innervosendo e non gliela facciamo
più a stare qui rinchiusi a fare al massimo 8 passi in lungo e in largo.
Penso che anche quelle due donne se ne siano accorte, infatti parlottano fra loro più di
prima e poi si danno delle occhiate preoccupate.
Noi abbiamo anche deciso che stasera non berremo la tisana che ci portano prima di
dormire, perchè ci siamo resi conto che appena bevuta ci viene un gran sonno e che ci
risvegliamo al mattino.
– Come faremo?
– La teniamo in bocca e poi, appena va via, la sputiamo.
– No, aspetta, dobbiamo anche far finta di dormire, perchè sono sicura che lei non va via
finchè non abbiamo chiuso gli occhi.
– Va bene, faremo finta di dormire, ma la cosa importante è non mandarla giù, poi appena
va via la sputiamo piano piano, senza fare alcun rumore.
Questo è il nostro piano organizzato a bassa voce e con tanti gesti. Ma il nostro fare
misterioso innervosisce quelle due che ci guardano interrogativamente e poi si guardano
fra di loro, ma poi continuano calme a restare lì sedute a farci da sentinelle.
Avere un piano ci ha calmati, cominciamo a giocare per passare il tempo, al gioco dei
colori, quello che mamma faceva con me quando ero piccola e non volevo stare in auto, il
pensare alle cose relative ad un colore allora faceva scorrere velocemente i chilometri e
adesso fa scorrere velocemente il tempo.
E’ arrivato il momento, siamo un pò agitati, ma poi tutto va bene. Restiamo immobili ad
occhi chiusi con il capo rivolto verso la parete, dove non ci sono torce accese, e questo ci
aiuta molto, perchè piano piano almeno io comincio ad aprire la bocca e far uscire un pò
della tisana. Quando siamo sicuri che sia andata via, ci alziamo e cerchiamo di ripulirci la
bocca sputando anche la saliva, piano senza far rumore come ci eravamo prefissati.
Come previsto nessuno è a guardia dell’entrata e piano, piano, sgattaioliamo fuori. Ci
rendiamo conto che poco lontano c’è un chiarore di torce e voci sommesse che intonano
una specie di canto, ci guardiamo, ci facciamo cenno di sì con il capo e ci dirigiamo là
facendo attenzione a rimanere riparati e a non fare troppo rumore.
Arriviamo in uno spazio non molto aperto e vediamo di fronte a noi un tempio con una
scalinata come quelli che ci sono nei siti archeologici, solo un pò più piccolo e tante
persone che cantano dondolandosi, non con voce alta ma con un ritmo incessante.
I miei amici si guardano l’un l’altra con occhi sbarrati e mi fanno capire che questo non è
un canto che loro conoscono e neanche un canto di quelli eseguiti a favore dei turisti.
– Certo! – rispondo – Ho sentito la mamma che diceva che ci sono circa sei milioni di
persone, che si possono definire discendenti dei Maya, alcuni sono più integrati e altri
meno, mantenendo le loro tradizioni. Perciò loro saranno senz’altro alcuni di questi!
– Non credo sia proprio così, comunque cerchiamo di avvicinarci senza farci scoprire e
restiamo vicini. – ci dice Chaac .
Strisciamo fra alcuni muretti e alberi cercando di fare meno rumore possibile, ma cercando
un posto da dove avere una visuale migliore. Adesso sentiamo un forte profumo
d’incenso, a me fa quasi girare la testa da come è intenso, ma imperterriti proseguiamo
avanti.
Arriviamo dietro un muretto un pò più alto, lo costeggiamo tutto camminando quasi
carponi, e poi improvvisamente sentiamo il ritmo che si fa più forte, le persone ballano
girandosi e scandendo delle parole e subito si abbassano inchinandosi verso la figura che
si staglia maestosa nel centro.
Anche noi la guardiamo attoniti e intimoriti: è Juan che indossa piume di uccello quetzal e
che si lancia in una danza frenetica. Mi torna in mente quel poco che ho letto riguardo alla
cultura Maya, sui sacrifici umani, sui sacrifici dei prigionieri e anche sugli auto-sacrifici,
quando il sangue estratto veniva poi bruciato affinchè la divinità si nutrisse con il suo
odore.
Mi sento venir male, mi metto seduta, non voglio assolutamente vedere altro, so solo che
voglio andare via, voglio tornare dai miei genitori, ma non so come fare. Guardo gli altri e
vedo che anche loro sono sconvolti. Confabuliamo un pò.
– Andiamo di là?
– No, passiamo di qua!
– E poi?
– Non lo so! Proviamo e vediamo dove ci porta questo muro!
– Ma se ci scoprono?
– Speriamo di no, facciamo piano e teniamo gli occhi aperti.
Fortunatamente è buio e ci basta il chiarore delle torce che ci sono in quello slargo dove
sono tutti riuniti.
Ma non riusciamo ad andare da nessuna parte, giriamo un pò in quà e là, ma senza
riuscire a trovare una via che ci porti fuori da questo villaggio. Decidiamo allora di ritornare
nella nostra stanza e aspettare l’indomani.
– Ma dov’è la nostra stanza?
– Bella domanda, io non lo so!
– Neppure io e adesso che facciamo?
– Aspettate, abbiamo camminato rasente questo muro, ne sono sicura, e avevamo la luce
delle torce là davanti a noi. Proviamo a ritornare indietro costeggiando da questa parte e
vediamo do ve ci porta.
Così facciamo e non so come arriviamo alla nostra stanza.
Ci scrolliamo dai vestiti la terra e cerchiamo di ripulirci a vicenda. Quando pensiamo di
essere a posto ci distendiamo sui nostri giacigli, stanchi e nervosi. Sentiamo l’eco lontano
dei canti e, in silenzio, pensiamo al domani e ci addormentiamo con la sicurezza che
l’indomani qualcosa escogiteremo per capire come fare a scappare da qui.