Due anni prima erano finiti i CCCP, con un disco che era un mattone, quattro facciate difficili e dense, dal titolo Epica Etica Etnica Pathos. Un disco doloroso nella realizzazione, un mese di pianti, liti, recriminazioni per una storia oramai irrimediabilmente compromessa. Un album bellissimo quanto per niente leggero. Il mondo apprese la fine dei CCCP dal comunicato stampa di quel disco, che acquistò valore aggiunto (se mai ce ne fosse stato bisogno) proprio per quello che rappresentava, la fine di quella storia unica e irripetibile per il rock e per la cultura italiana.

Il disco fu realizzato in collaborazione con quella frangia di musicisti fiorentini che era appena fuoriuscita da un’altra storia fondamentale per l’epoca: Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Ringo De Palma. Come dire: i Litfiba che non ci stavano a quella svolta “popolare” che il gruppo stava intraprendendo. Con loro Giorgio Canali, che di quei Litfiba era il fonico, che qui però riprende il ruolo che forse gli era più consono, quello di chitarrista terrorista. Il 13 settembre 1990, data d’uscita di quel doppio album, segna ufficialmente e storicamente la fine della Fedeltà Alla Linea. “Oggi, 13 settembre ’90, muore un mondo e muore un uomo. Oggi – diceva Piccolo Grande Uomo – Oggi è un buon giorno per morire. Per una volta siamo d’accordo con lui.” (dal comunicato stampa Virgin dell’album).

“Maciste contro tutti” tratto dall’album Epica Etica Etnica Pathos

Nel 1992 la fine dei CCCP era già data per acquisita. Ma c’è chi non si rassegna. Il lutto non è stato ancora completamente elaborato, manca ancora una pubblica celebrazione di quel pianto rituale. Ferretti e Zamboni hanno una nuova vita: hanno un’etichetta indipendente, I Dischi Del Mulo, e scoprono e lanciano due formazioni di quell’Emilia montanara e paranoica che conoscono bene, ovvero gli Ustmamò e i Disciplinatha. L’allora direttore degli eventi speciali del Museo Pecci, Mario Bufano, allora fa loro una proposta: “Fate qualcosa. Senza impegno.”

Qualcosa che non sia un concerto. Che sia una festa. Che sia un ringraziamento. Che sia un’occasione per ascoltare, per una volta e mai più, quei pezzi confinati in quel disco potente e bellissimo di due anni prima. Ferretti e Zamboni si lasciano tentare. Il fatto che a proporglielo sia un Museo D’Arte Contemporanea e non un organizzatore di concerti gli era piaciuta molto. Per di più, l’ala fiorentina (Maroccolo Magnelli Canali) non si era mai rassegnata a lasciare quei pezzi confinati in un disco.

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Quindi l’idea è quella di mettere su un happening legato a Ustmamò e Disciplinatha, non un concerto canonicamente strutturato ma una sorta di pubblica presentazione di quei progetti, con l’ausilio degli ex CCCP a concludere la serata, ma – e che la cosa non lasciasse adito ad equivoci – non come gruppo ma come singoli individui. Annarella e Fatur non sono della partita, non c’era la voglia di ricreare i CCCP e poi all’epoca loro erano impegnati in altri progetti. Inoltre, per quell’ultimo disco, la loro partecipazione era stata molto marginale, e causa di forti scontri interni.

L’idea della serata, nella testa di Ferretti, è chiara: i gruppi devono scambiarsi i componenti tra di loro, non ci devono essere prevaricazioni o personalismi di sorta. Quello che deve uscire è l’identità di gruppo. E il tutto deve avere l’aria della festa “in famiglia”. Non tre bands ma un’unica orchestra punkettona. Nell’intenzione quella serata doveva avere l’idea di un “kolossal” minimale. Definizioni apparentemente in contraddizione, ma non nella testa dei nostri, che hanno ben chiara una figura che del kolossal e del minimalismo di mezzi ha fatto tesoro e poesia. La figura è quella di Maciste, l’eroe nostrano che nei film peplum-parrocchiali degli anni 50-60, realizzati con pochi mezzi ma dalle intenzioni grandiose, combatte contro i nemici più improbabili: contro Zorro, contro Ben Hur, contro i ciclopi, contro i mongoli, contro Ercole… Maciste contro tutti, quindi. O vince lui o vincono tutti gli altri.

Quindi partono le prove. E a Prato appaiono i manifesti di quella serata, inserita nel Festival Delle Colline del 1992: un manifesto che ricorda quelli dei caduti in guerra. Una foto ingiallita, un primo piano per ogni singolo partecipante. La data doveva essere in giugno-luglio. Ma durante le prove Ferretti si ammala. Si ricovera in ospedale. I dottori dicono che non si tratta di qualcosa di grave, ma preferiscono tenerlo sotto osservazione. La data, due giorni prima, viene annullata. Ma oramai la macchina era partita, lo spettacolo è pronto e l’attesa è tanta che non può essere disattesa. Si fa passare l’estate, e Maciste Contro Tutti andrà in scena il 18 settembre 1992 all’Anfiteatro del Museo Pecci.

Il colpo d’occhio per chi entra all’anfiteatro la sera del 18 settembre 1992 è spiazzante. Due batterie, un muro di amplificatori, decine di postazioni, il tutto sovrastato da un’impalcatura metallica che sul finale del concerto si incendierà, una sorta di fuoco sacrificale che brucia le ceneri di un’epoca. Un Ferretti in giacca e cravatta entra sul palco prima di tutti, e annuncia il programma della serata. Gli Ustmamò suoneranno per una mezz’oretta, poi i Disciplinatha faranno la stessa cosa, poi “come tutti sapete, CCCP non esiste più, per cui stasera, in via del tutto eccezionale, il Consorzio dei Suonatori Indipendenti C S I suonerà per voi.”. E aggiunge, a bassa voce, quasi timoroso per quello che sta per succedere “spero sia interessante”.

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Quello che succede è una deflagrazione. Gli Ustmamò, ancora alfieri di un punk bucolico-montanaro e non ancora contagiati dai Bristol Sound che farà conoscere loro un discreto successo un lustro più tardi, al grido di “Orietta, sei tutti loro!” ci deliziano con una versione quasi CCCP di “Finché la barca va”. I Disciplinatha, che all’epoca erano situazionisti ed estremi quanto i CCCP, però pescando nell’immaginario dell’estrema destra (cosa che suscitava non pochi equivoci e prudori di mani in chi se li trovava davanti) al grido di “A noi! A noi! Addis Abeba!” ci sbattono in faccia la loro “Crisi di valori” in salsa thrash-metal-industrial. E poi, arrivano i C S I (che inizialmente doveva essere l’acronimo di Confraternita Suonatori Indipendenti, poi Ferretti lo cambiò 10 minuti prima di salire sul palco del Pecci e diventò il Cosorzio che tutti abbiamo conosciuto), ovvero Ferretti Zamboni Maroccolo Magnelli Canali con l’ausilio di Roberto Zamagni (già nei Negrita) alla batteria, Alessandro Gerby (già Vidia) alle percussioni, Patty Vasirani alla voce lirica e alle preghiere e Mara Valeria Roberta e Cristiano (tutte le voci di Ustmamò e Disciplinatha) ai cori. La scaletta attinge a pieni mani da Epica Etica… ma celebra anche la storia dei CCCP senza rimpianti.

“Emilia Paranoica/Spara Jurij” live al Pecci

L’inizio è con Emilia Paranoica, per la prima volta eseguita dal vivo con una batteria vera e con alcune modifiche al testo (“chiedi a 77 cosa resta e cosa va” – “una ad una impotenti in un posto nuovo… che palle”) quasi a sottolinearne l’alterità. Sfocia in una Spara Jurj quasi a tradimento, e Ferretti salmodiando assiste attonito al pogo che inevitabile si scatena nella mezzaluna davanti al palco. La scaletta va dai 30 secondi di Valium Tavor Serenase ai 18 minuti di Maciste contro tutti. Nel mezzo, una fulminante versione di Svegliami (purtroppo non inclusa nel disco che fotografa l’evento, e che uscirà per Virgin l’anno dopo), una versione di Morire lentissima e scarna, urlata e sofferta; una versione di Madre che include l’intera lista delle litanie lauretane alla Beata Vergine Maria in latino. Una potentissima, epica e definitiva Maciste contro tutti concluderà l’evento, con tutti sul palco, a sottolineare “tedio domenicale / quanta droga consuma / tedio domenicale / quanti amori frantuma” mentre il fuoco alle spalle dei musicisti si alza contro le pareti del Museo. Nella volontà di chi sta recitando, è una fine. E’ un funerale. E’ un pianto collettivo. In realtà le cose andranno in modo ben diverso, e quella serata, in cui tutti al termine avevano le lacrime agli occhi, segnerà l’inizio della storia musicale più importante degli anni 90. Ma è, appunto, un’altra storia.

(Foto tratte da: vdb23/storie di un suonatore indipendente, Gianni Maroccolo)