12 marzo 1990

Due giorni fa è morta mia madre. Per la prima volta da quando tengo un diario non ho scritto nulla.
Di due cose sono sicuro: lei mi mancherà moltissimo e dovrò imparare a cavarmela da solo.
Il prete, durante il funerale, ha chiesto perdono per i suoi peccati. Certo. I peccati di una donna di nemmeno quarant’anni, sfinita dalla malattia che ha pianto per me, un’ultima volta, prima di perdere conoscenza. Attorno alla bara era pieno di gente, mio padre fuori in viaggio. Lo avranno avvertito, in qualche modo.

7 luglio 1990

Da settimane giro per le stanze vuote. Sono rimasto in Italia. Mio padre non ha insistito: dice che devo finire il liceo, o forse non mi vuole. Una signora straniera “la tata” vive con me: pulisce la casa, prepara da mangiare e sta molto al telefono. Mi chiede se ho fatto i compiti, poi riferisce tutto a mio padre dall’altra parte del mondo.
Quando lei non c’è, giro per casa in mutande. Mi annoio, mi masturbo e piango; a volte apro la porta della camera della mamma, mi stendo sul letto e rimango lì, per ore.
Devo trovare qualcosa da fare.

20 luglio 1990

Qualche giorno fa ho deciso di andare a far visita all’associazione di volontariato di cui si occupava mia mamma. Mi ha aperto una signora bionda; le ho chiesto se potevo fare qualcosa. Dopo mi hanno telefonato: pare ci sia un ospizio da queste parti.
Due pomeriggi la settimana vado lì per un’oretta. La prima volta due signore mi hanno accompagnato lungo i corridoi che puzzano di muffa. Mi hanno affidato un uomo anziano. Non parla quasi più, è scontroso. Io devo solo stare seduto accanto a lui in giardino.

31 agosto 1990

In questi giorni fa molto caldo. Continuo ad andare all’ospizio per stare con Francesco. Sì, il signore a cui faccio compagnia si chiama come me e siamo quasi diventati amici. Un pomeriggio mi ha guardato e ha cominciato a parlare, così senza ragione. Dice che gli ricordo lui da giovane, stessi capelli con la ritrosa e stessa aria di uno che non si farà mai comandare da nessuno. Le infermiere dicono che ha perso la testa e che, qualche volta, fa discorsi strani. Per esempio mi parla sempre del posto dove è nato che ha un nome buffo per un paese: Paperino. Chissà se esiste davvero. Pare si trovi in Toscana, alla periferia di una città piena di fabbriche, anche se è campagna. Mi chiedo come sia finito qui, così lontano, ma non me ne ha mai parlato.

8 febbraio 1991

Mio padre vuole che vada a vivere con lui in America. Si è risposato con una di Boston, una certa Helen. Mi hanno spedito una foto. Io non ho nessuna intenzione di attraversare l’oceano. E poi c’è Francesco. Oggi mi ha raccontato ancora della sua giovinezza a Paperino: poche case sparse tra i poderi, l’odore di stalla, i bachi da seta e i telai sotto i portici davanti all’aia; e quel pomeriggio quando si graffiò correndo lungo i filari di viti; e i bagni d’estate nelle gore, piccoli canali di scolo dove raccoglievano i pesci nella melma dopo averle prosciugate.
Sua mamma è morta quando aveva diciassette anni e lui, da allora, ha cominciato ad andare dietro alle ragazze: – Almeno smettevo di pensarla – mi ha detto. Credo ne abbia avute moltissime.
Le infermiere dell’ospizio sono tutte preoccupate per me. – Si è attaccato troppo, non va bene.
Io mi chiedo cosa ci sia di strano nel voler bene a una persona.

17 maggio 1991

Oggi Francesco mi ha raccontato del carnevale di Paperino. Pare sia famoso da quelle parti. È nato come uno scherzo tra amici, una bara portata per il paese con il finto morto che si alzava e spaventava tutti; e i carri trainati dai trattori, le maschere e i coriandoli. – Poi pulivamo tutto e mangiavamo insieme – mi ha detto con gli occhi umidi.
Gli ho chiesto se non gli manchi mai il suo paese. – Sono passati troppi anni e le persone a cui volevo bene non ci sono più. I posti sono fatti dagli uomini, senza di loro un paese è una scatola vuota.
Mi ha raccontato che è nato in una grande casa vicino alla chiesa, poi mi ha mostrato una fotografia: ritrae lui bambino sorridente e sdentato nell’aia davanti a casa con sua madre che lo abbraccia mentre guarda altrove.
– A volte penso che mi piacerebbe tornarci, ma è impossibile. Prima di riaccompagnarlo in camera gli ho fatto una promessa.

5 marzo 1993

Da quando è morto Francesco mangio pochissimo. Mercoledì l’ho salutato, come sempre.
Non mi hanno nemmeno avvertito. Oggi quando sono arrivato all’ospizio mi hanno fermato sulla porta. Ho cominciato a piangere e giurato che sarei scappato via.

21 luglio 1998

Ieri è morto mio padre. Davanti alla bara mi è venuto in mente quando mi ha mandato a prendere, cinque anni fa: un signore dai modi spicci ha chiuso casa, preparato una valigia e mi ha messo su un aereo.
Sono atterrato a New York. Durante il volo ho pianto, mangiato due volte e vomitato.
Mio padre mi aspettava in fondo a una fila di gente: non sembrava il ricordo che avevo di lui. Era insieme a sua moglie. Lei mi ha sorriso, lui mi ha dato una pacca sulla spalla poi ha parlato: – D’ora in poi vivrai con noi. Vedrai che ti troverai bene, benvenuto in America.
Io non ho risposto.

10 settembre 2001

Ogni mattina prima di andare al lavoro io e mia moglie facciamo colazione insieme e lei mi sorride. Pochi scalini e sono in strada, il cielo smaltato di settembre spunta tra mattoni rossi delle case. Quest’America mi piace. Qualche volta prendo la bicicletta e attraverso Central park, poi rientro a casa sudato e felice. Nostro figlio ha cominciato a parlare.
La sera, quando non sono troppo stanco, gli racconto le storie del nonno italiano e del suo paese Paperino.
– Paperino? What does it mean? Io faccio qua qua e gli indico il fumetto. – It is the italian word for Donald Duck. Lui ride e io lo stringo forte.

12 luglio 2002

Il nostro viaggio in Italia è saltato: l’attentato ha sconquassato tutto. Mia moglie è di nuovo incinta. Stamattina a colazione mi ha fissato: – Francesco ricordati la tua promessa.

5 maggio 2005

Ieri sono atterrato a Pisa alle 9 di mattina. Ho dormito senza vomitare, questa volta. Ho preso un treno e sono sceso alla stazione di Prato, pochi binari, eppure siamo in una grande città. Una ragazza con un curioso grembiule chiaro mi ha fatto un caffè buonissimo e mi ha sorriso senza parlare. Le sembro uno straniero e forse lo sono.
Ho chiesto a un taxi di portarmi in albergo. Ha un nome curioso: Art Hotel ed è accanto ad un museo di arte contemporanea che un imprenditore ha donato alla città.
Stamattina ho visitato una mostra.
Alle due del pomeriggio è arrivato di nuovo il taxi, come concordato.
Mi porti a Paperino, per piacere – ho chiesto all’autista.
Si è voltato: – Paperino, ma che ho capito bene signore? Vuole andare a Paperino?
– Sì, Paperino.
Lungo le strade attorno a me traffico, rotonde e poi un paesaggio con sprazzi di campagna e fabbrica sparse. Insegne cinesi, ogni tanto. Dopo una curva il taxi si è fermato.
– Siamo arrivati, signore.
– Mi aspetti qui per piacere.
– Va bene.
Pochi passi e ho visto la chiesa, un campanile e molte case nuove intorno.
Ho baciato la fotografia che Francesco mi ha affidato tanti anni fa e l’ho guardata per l’ultima volta: un bambino che ride, uguale a tanti altri e una mamma davanti a una casa che non esiste più. Poi, come promesso, l’ho appoggiata sulle acque di una gora poco lontana. Quel quadratino in bianco e nero si è allontano sempre più veloce ed è sparito via.
Ho cominciato a camminare sempre più forte, senza voltarmi, fino a correre lungo le strade di quel paesino dal nome buffo, finalmente libero e leggero nell’aria di un precoce tramonto.