piatto fiori copertina bassa“Padre Ismael conosce il diavolo da sempre, sin dalla sua giovinezza africana, ancor prima della vocazione religiosa e del trasferimento in Italia. E conoscendolo sa di non essere immune alla sua fascinazione, di leggere anche dove non dovrebbe i segni della sua presenza…”. Si intitola “Fiori per me che profumo” il nuovo romanzo di Jean-Jacques Ilunga, sacerdote congolese, d’adozione pratese edito da Fandango Libri. Il romanzo racconta di un giovane prete che si trova alle prese col male e col demonio in un piccolo paesino della provincia di Prato. Un libro scritto in maniera semplice e lineare, avvincente, che appassionerà e farà discutere. Abbiamo incontrato l’autore e lo abbiamo intervistato.

Com’è nato questo racconto?

Sono partito da una riflessione su me stesso. A noi sacerdoti molto spesso ci viene chiesta la guarigione dalla ferita della sofferenze, però queste sofferenze, molto spesso, le abbiamo anche noi. Anche noi abbiamo quelle ferite che dobbiamo guarire negli altri. Ho cercato di dare a questo personaggio più caratteristiche umane possibili, non ho voluto raccontare un eroe, ma un uomo. Non volevo raccontare però una storia autobiografica all’inizio però. Me lo dicevano “tutti i libri sono autobiografici”: io non ci credevo. Invece è così. Racconti cose che sono tue, in modo tuo. Ci sono però episodi palesemente ricollegabili alla mia vita: primo tra tutti la pagina dedicata all’incontro con monsignor Fiordelli prima della mia scelta di diventare sacerdote, una cosa a cui tenevo, anche da raccontare per rendere omaggio alla memoria di questa figura straordinaria che è stata questo vescovo.

Un sacerdote alle prese col Male, ha raccontato. La concezione del male, però, cambia nel protagonista durante la storia.

Ho voluto affrontare tre aspetti del male in questo libro. Il senso di colpa, rappresentato da una giovane ragazza divorata da questa colpa, che riesce a misurarsi e a dominarlo. Il secondo aspetto del male invece è la mancanza d’amore, anche questa rappresentata da una donna anziana consapevole che sta arrivando la fine della sua vita, che ha vissuto senza amare nessuno, e ciò rende la consapevolezza della morte atroce, dato che l’amore  è l’unica forza che ti porta ad accettare pure la morte. Il terzo aspetto è il maligno, col quale il protagonista si ritrova a confrontarsi anche in maniera ambigua: ad un certo punto sembra non credere nemmeno al demonio, perché, secondo lui, il demonio come viene definito da una parte del clero e della chiesa, non è quello. Per loro tutto è demonio, la depressione è demonio, il male psicologico è demonio. C’è un episodio che racconta il confronto con un vecchio parroco, col quale ho voluto esprimere alcune mie preoccupazioni: forse noi giovani preti rischiamo di farci sorprendere, loro anche sbagliando sono più guardinghi, preparati.

Come viene sconfitto il male in questo libro?

Ho voluto dare delle piste. Non risposte. La prima è, forse, la più scontata: la fede, anche se ho voluto parlare il meno possibile della fede, per lo studio sull’umanità del personaggio. Poi il silenzio: le persone hanno paura del silenzio, invece il silenzio è la via d’uscita dal male, ricercando il silenzio diventa evidente che abbiamo vinto nei suoi confronti. Attraverso il racconto e la figura di mio nonno, ho voluto raccontare la terza via: la tradizione. Abbiamo dentro a noi un patrimonio che ci aiuta a trovare la forza per combattere il male. E poi la prudenza: Ismael non si butta sul male, cerca di temporeggiare. La frase che abbiamo scelto di mettere dietro il libro “Chi non è tentato non può nemmeno salvarsi” è di Sant’Antonio vuol dire semplicemente che nelle difficoltà nasce la virtù, il coraggio. L’uomo che non vuole affogare inizia a sviluppare la tecnica per nuotare. Ho voluto creare un testo semplice, non dell’orrore come il film “l’esorcista”, per intendersi, perché penso sia importantissimo parlare di questo tema, e farsi una sorta di “test” per capire da che parte sto: se al male o al bene. Senza condannare, per confrontarsi con sé stessi.

I profumi tornano molto in questo libro. Che significato gli ha dato?

Il profumo era un modo per dire che per occuparsi della gente bisogna avere fiuto, inizialmente. Poi anche qui, li ho usati per cambiare la prospettiva rispetto alla tradizione cristiana e per renderla più umana: nel libro, come nell’uomo, le cose peccaminose hanno un buon profumo, è per questo che attraggono. Possiamo semplificare che il male apparentemente, all’inizio è una cosa che ti piace, ma che poi ti porta a deteriorarti.

Foto Ilunga 2

Una figura che ritorna spesso nel libro è “l’Altro”. Che concezione abbiamo oggi dell’Altro?

L’altro è il male. A Prato il cinese è l’altro, il male. Invece non è così: se io mi fermo e guardo dentro di me, io vedo il mio male, i miei difetti, i miei errori, anche se non sono cose mostruose, la cosa mi spaventa. Se io trovo dentro di te anche solo una piccolissima cosa che è male, ecco, tu diventi la chiave di tutto il mio sfogo. L’altro è lo specchio di noi, dobbiamo parlare di questa cosa, dobbiamo tornare a vedere l’altro, perché l’altro siamo noi. E’ facile vedere i demoni dentro gli altri, ma anche noi li abbiamo.

Ha avuto esperienze con l’esorcismo?

Si. La prima volta è stato per curiosità, poi quando è nato questo libro sono andato a farle più spesso assieme a don Guglielmo Pozzi (esorcista della diocesi di Prato ndr.). Posso dire che solo in un caso posso dire che mi sono trovato di fronte ad un indemoniato: gli altri erano persone che soffrivano in maniera fisica, morale, spirituale. L’esperienza con l’indemoniato è stata allucinante: il diavolo ti toglie piano piano un po’ di te stesso, ti rende sordo anche alle cose che ti piacciono. Questa persona era rovinata anche fisicamente, una persona che non ha niente di umano, era una persona devastata.

Lei è professore, come padre Ismael. Come vede i giovani?

Io li vedo come l’Ikea. Fanno da sé. Gli manca la serenità dei genitori, gli mancano i maestri, la gente che ha la capacità di capire questa società e spiegargliela. E’ giusto che un giovane faccia da sé, ma oggi fanno solo da soli. Questa cosa è abbastanza preoccupante per me: ogni tanto prendono ad esempio un cantante ad esempio e non li si può rimproverare per questo: perché non c’è altro. In questa cosa sono molto bravi: perché con tutta questa miseria, sopravvivono anche troppo egregiamente.

Come vede Prato e la chiesa pratese?

Bisogna rassegnarsi, anche se è un termine bruttissimo per un prete, che il modello vecchio non funziona più. Stiamo ancora facendo il lutto per le cose che abbiamo perso. Viviamo in maniera esasperata il problema della convivenza, ma questo è fisiologico e io penso che passerà. Io non mi aspetto niente dalla politica, quindi non sono deluso dalla politica, come tante persone. Io mi aspetto molto dalle persone. Per quanto riguarda la Chiesa pratese, dobbiamo avere più coraggio e non risparmiarci, come hanno fatto bellissime figure che sono state in questa Diocesi, come la persona di Fiordelli che trasmetteva passione a chiunque. La chiesa deve impegnarsi a vivere dentro la ferita di cui parlavo all’inizio: non dobbiamo sentirci privilegiati, non siamo medici con in mano la siringa da dare al malato, devo sentire che il male della gente è anche il mio. Tornando a parlare di Prato, ho cercato di dirlo con forza in questo libro: il male c’è, ma deve essere stimolo per creare il bene, tira fuori il nostro orgoglio. E questo è il dna di questa città: il reinventare e reinventarsi.

Veduta di Prato dal campanile di San Bartolomeo - Foto di Augusto Biagini
Veduta di Prato dal campanile di San Bartolomeo – Foto di Augusto Biagini