Roberto Freak Antoni era un genio. E l’articolo potrebbe anche finire qui (segue applauso). Ma l’abilità nel continuarlo, questo pezzo, sta proprio tutta nell’evitare il magone (con i suoi gioconi di prestigio, direbbe Vasco Mirandola), quella tristezza inevitabile che ti prende proprio nel volerla raccontare, questa genialità. Ci provo: in maniera confusa, amareggiata, e a caldo, dopo che ieri il genio in questione ha smesso di essere, nel senso più terreno e carnale del termine.

Innanzitutto, sciorino quella che è la mia teoria: gli Skiantos stanno all’Italietta cantata come i Sex Pistols stanno al rock inglese. Figli del movimento del ’77, ne rappresentano fin da subito l’ala più dadaista e surreale, che non vuol dire disimpegnata o goliardica: si fanno interpreti e portavoce di quell’atmosfera che si respirava al Dams bolognese. Se c’è un punk autenticamente italiano, non è quello cerebrale del filosovietismo dei CCCP, ma il rock demenziale bolognese, e gli Skiantos in testa. Come il punk, uccide tutto quello che c’era prima riportando l’asse musicale ad un rock’n’roll primordiale e viscerale, alla faccia dei barocchismi e degli ipertecnicismi.

E fa qualcosa di più, qualcosa di autenticamente italico: mette in ridicolo i testi delle canzoni d’amore (e delle canzoni intelligenti) che all’epoca dettavano legge. Usa le stesse rime cuore/amore destrutturandone significati e significanti. “Io ti amo da matti / se mi vuoi ti lavo i piatti / ti regalo anche due gatti / dai facciamo quattro scatti”. E’ una mazzata per tutta la tutta la tradizione canzonettara, autentica e “di pancia”, come probabilmente non c’era mai stata. Per la prima volta nella canzone italiana entrano i giovani, ma non quelli edulcorati degli anni 60: entrano i suburbani, i non integrati, gli apocalittici alla Andrea Pazienza. “Sono andato alla stazione / a comprare l’Eptadone / poi mi ha preso l’emozione, son scappato col furgone”. Nessuno aveva mai osato tanto prima.

Freak Antoni degli Skiantos di tutto questo era senza dubbio uno dei maggiori responsabili. Gli Skiantos dei primi tre album (“Inascoltable” del 77, “Mono Tono” del 78 e “Kinotto” del 79) erano un’entità complessa, con due cantanti accreditati (Freak Antoni e Stefano Sbarbo Cavedoni) e chissà quanti cantanti estemporanei. Ma Freak Antoni era senza dubbio il teorico, l’ideologo, il razionalizzatore di tanta poesia. La demenza – appellativo preso in prestito da una citazione Nietzchiana – ha radici molto più profonde della superficialità che sbandiera: “Diventa demente: la kultura poi ti kura con premura” . E suo, profondamente suo è quello che si può identificare come il manifesto programmatico di quel comune sentire: “Largo all’avanguardia / pubblico di merda / tu gli dai la stessa storia / tanto lui non c’ha memoria”. Un brano-manifesto che si permette una vetta dadaista nell’inciso: “me mi piace girare facendo dei giri non brevi ma lunghi / me mi piace scoreggiare / non mi devo vergognare / non c’ho niente da salvare” per poi assumere toni assertivi e perentori: “l’avanguardia è alternativa / non fa sconti comitiva / l’avanguardia è molto dura / e per questo fa paura”. Non per niente, questo è stato il pezzo che da sempre – e per sempre – ha concluso ogni esibizione degli Skiantos.

Gli Skiantos hanno continuato a fare dischi fino al 2010, con alterne fortune, giocando spesso di maniera e artigianato ma capaci ancora di qualche guizzo, anche nelle ultime produzioni: si ascolti quel piccolo capolavoro che è “Canzone contro i giovani” del 2003. Freak Antoni veniva spesso identificato con gli Skiantos, ma non era solo gli Skiantos. Anzi, gli Skiantos spesso e volentieri erano una limitazione per una personalità così complessa, tanto che lascerà il gruppo ben due volte: la prima nel 79, dopo Kinotto, per poi rientrarci nel 1982 – l’album “Pesissimo” del 1980 è composto e cantato dal solo Stefano Sbarbo Cavedoni – e la seconda, e definitiva, nel 2012, quando forma la Freak Antoni Band.

Freak Antoni è stato tanti personaggi, tante realtà musicali e non. Vado a memoria: in ambito musicale, nel 1980 fa uscire un cofanetto di 5 45giri chiamato “L’incontenibile Freak Antoni” in cui diventa il leader di cinque diverse band: I Nuovi 68, Astro Vitelli & The Cozmos, I Recidivi, i Genuine Rockers e gli Hot Funkers. Tenta un’incursione nel mainstream reinterpretando dei pezzi swing (complice Carlo Massarini e il suo Mister Fantasy) come Beppe Starnazza e i Vortici con l’album “Che ritmo”, ma i tempi non sono maturi per un successo di massa, e si rivela per l’ennesima volta troppo avanti.

Con il Gran Pavese Varietà, una sorta di Monty Python made in Bologna, gruppo del quale oltre a Freak fanno parte Patrizio Roversi, Syusy Blady, P’aco D’Alcatraz, Vito e i Gemelli Ruggeri incide “Cuori italiani”, contenente la struggente “Come un vitello” – un gioiellino semisconosciuto del nostro, stavolta sotto lo pseudonimo di The Bovines. Poi le incursioni nella musica contemporanea con la pianista Alessandra Mostacci, e i testi scritti per gli Stadio (“Incubo assoluto”), per Raoul Casadei (sì, anche per Raoul Casadei. “Il tango della dedica”. Quando uno è situazionista, è situazionista…).

Ma Freak Antoni era soprattutto un poeta. E da poeta si è comportato per tutta la vita. La cosa più assurda è che il suo essere poeta, probabilmente, è il ruolo che gli ha portato più successo e soddisfazioni economiche. “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti” è il titolo della sua raccolta più famosa, quella che lo ha portato anche a presenze televisive (Maurizio Costanzo, negli anni 90, lo adorava e lo invitava continuamente). Le sue poesie erano lancinanti, ti strappavano risate amarissime, ti spiazzavano nella loro laconicità. Cose come “Un ebreo negro comunista / come lui / avrebbe potuto anche farcela / se solo / non fosse nato nel Bronx” o come quella che tutti hanno citato almeno una volta nella vita, “La fortuna è cieca / ma la sfiga ci vede benissimo”.

Mi sono imbattuto in Freak Antoni la prima volta nel 1985. Ero alle superiori, e vado in motorino ad un concerto degli Skiantos alla Festa dell’Unità delle Badie. Eravamo più o meno in trenta persone, e per la prima volta, con orecchie vergini da adolescente curioso e vorace, mi imbatto nell’avanguardia, nei gelati che sono buoni ma che costano milioni, nel karabigniere blues, e soprattutto in un pezzo che sarebbe uscito su disco due anni dopo, ma che quella sera suonarono in anteprima, “Sono un ribelle mamma / vai a letto, non star sveglia nella stanza”. Non avevo mai visto su di un palchettino, a pochi centimetri da me, tanta provocazione e tanta genialità. Ritorno a casa con la felicità negli occhi e una certezza: io da grande voglio fare quella cosa lì.

Lo incontrerò di nuovo tre o quattro anni dopo. Avevamo fatto con gli Edipo e Il Suo Complesso la nostra prima cassettina, “Sforzo Rock Prolungato”. Lui faceva uno spettacolo allo Zero 6 (Le Nozze di Figaro). Noi andammo e timidamente gliela regalammo. Ci fece inginocchiare davanti a lui e ci fece seduta stante “cavaglieri della santa demenza”. Il giorno dopo ci telefonò, facendoci i complimenti per il Maniaco e una critica: troppe cover. “Fate pezzi originali, ragazzi”. Quanto aveva ragione… La sorpresa fu, sul disco successivo degli Skiantos, “Troppo rischio per un uomo solo”, trovarci i saluti a Edipo e Il Suo Complesso.

Invitarlo per un concerto fu un tutt’uno: successe nel 1990, al Manila di Campi Bisenzio (Fi). Suonammo con lui “Mi piaccion le sbarbine” e “Sesso e karnazza”. Volavo a trenta centimetri da terra. Poi di nuovo, anni dopo, in una nuova veste: lavoravo al CPI, e lui aveva scritto dei testi che aveva proposto ad Andrea Chimenti (!). E Andrea li cantò, e ne era soddisfatto. Parlavano di fare un disco su testi di Freak Antoni, giocando su quanto di più assurdo ci potesse essere nell’accoppiata Chimenti/Antoni. Ovviamente la cosa non andò in porto. Probabilmente era un’altra cosa troppo avanti, troppo coraggiosa per essere portata a termine.

Ancora una volta, non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti.