Davide Arnetoli, anche conosciuto come Mr.Emphasys, probabilmente l’avrete visto in azione insieme alla Band del Brasiliano. E’ il cantante/percussionista: quello con il cappottone di cammello a qualsiasi temperatura. Si scopre, è anche uno scrittore. Ecco il suo “L’Italiano”: prosa retrò, anni 70, quasi poliziesca (basta pensare anche al NickName del protagonista, che sembra uscito dai nomi di battaglia della banda della Magliana), anche se il racconto procede per altre ambientazioni e altre atmosfere. E un finale a sorpresa.

L’italiano

L’Italiano era di corporatura robusta, di bell’aspetto, del genere faccia affilata e labbra cucite. Sulla sessantina. Indossava sempre abiti scuri con l’immancabile fazzoletto bianco che occhieggiava vanitoso dal taschino. I capelli finivano esattamente alla fine del cappello a tesa larga così che uno guardandolo poteva anche immaginarselo calvo ma non lo era. La fronte spaziosissima, lucida, nemmeno una ruga d’espressione, sembrava fatta apposta per risaltare quello per il quale pochissime persone avevano l’ardire di guardarlo in faccia. Una cicatrice amara, un arco quasi perfetto che sfregiava il volto orrendamente da una tempia fino all’altro zigomo passando dalla guancia poi giù nella bocca e di nuovo su.

L’Italiano arrivò a Minas nella pampa uruguagia senza preavviso. Riuscì a convincere Cardoso a vendergli tutto il suo appezzamento di terra coltivata, compresa la sua casa che si trovava proprio in mezzo alla proprietà. Pagò in contanti. Si racconta che Cardoso, che comunque aveva passato i settanta, fu convinto a cedere la sua attività dopo aver ascoltato la storia della cicatrice dall’Italiano in persona. Alcuni assicuravano che era stato un contrabbandiere nella frontiera tra Messico e Stati Uniti, altri che aveva fatto soldi in Sud Africa con le miniere di diamanti.

Anche io e mio padre gestivamo una fattoria, ma a parte qualche incontro fortuito alla Camera del Commercio o alla riunione annuale degli agricoltori non avevamo mai intrattenuto rapporti con l’Italiano. I contadini dicevano di lui che fosse severo al limite della crudeltà, ma estremamente giusto. Dicevano che tre volte l’anno, a cadenza regolare, si ubriacasse. Si chiudeva nelle stanze private della fattoria e ne riemergeva solo dopo due giorni, stremato, pallido, sgomento, come dopo una battaglia, per poi tornare ad essere l’uomo energico di prima. Il suo spagnolo era rudimentale, cosparso di neologismi traslati approssimativamente dall’italiano. Il suo vero nome non è importante.

Era l’inverno del 1976 e stavo tornando da Montevideo dove ero andato per concludere un grosso acquisto di sementi quando la mia moto decise di fermarsi all’improvviso in aperta campagna. Era tardo pomeriggio e cominciò a piovere. Riuscii a spingerla a mano fino alla fattoria dell’Italiano. Lui stava da solo in piedi sotto la veranda, mi fece segno di avvicinarmi. Ero fradicio. Dopo pochi minuti ebbi la chiara impressione che la mia presenza fosse importuna. Cercai d’ingraziarmelo e mi aggrappai al più banale degli argomenti per uno straniero in terra straniera: il patriottismo. Dissi che quando un paese è animato da uno spirito come quello che muove l’Italia in quest’epoca di grandi rivoluzioni tecnologiche, anche nelle avversità sarà invincibile. Assentì in silenzio ma poi aggiunse con un sorriso tirato che le sue origini erano svizzere. Detto questo si bloccò come se mi avesse rivelato un segreto.

Mi pregò di restare fino a che il tempo non si fosse ristabilito, poi mi avrebbe fatto accompagnare alla mia fattoria che distava una decina di chilometri. Cenammo in silenzio, poi ci trasferimmo nel salone davanti al camino. La cameriera ci portò sigari e una bottiglia di rum. Avevo perso completamente il senso del tempo quando mi accorsi di essere ubriaco. Forse proprio per quello ebbi in un momento di pura incoscienza l’ardire di chiedergli come si era procurato quella cicatrice. Il volto dell’Italiano diventò di color buio come la notte. Pensai che mi avrebbe buttato fuori di casa all’istante, invece alla fine con tono disteso mi disse:
-Le racconterò la storia della mia ferita alla sola condizione che subito dopo non commenterà, non dirà niente di niente. Non ho bisogno dei suoi commenti. Se ne andrà da casa mia.-
Feci cenno di si col capo.

Ecco la storia che mi narrò:
L’inverno italiano del 1944 fu molto rigido sull’Appennino tosco-emiliano, ma ormai era alle spalle. Mi trovavo con i partigiani della provincia di Pistoia e ci stavamo preparando a compiere svariate azioni di disturbo nelle posizioni tedesche sulla Linea Gotica. Eravamo quarantacinque all’inizio dell’inverno, ad Aprile eravamo rimasti in ventitre. Caddero tutti in battaglie segrete nei boschi che nessuno ricorderà. Eravamo antifascisti e cattolici ma soprattutto romantici. L’Italia era solo un affettuoso mito e l’avvenire un’amara utopia. Ma non ci arrendevamo.

Una sera che non dimenticherò mai arrivò insieme al Carbonaio un partigiano del nord Italia, un certo Pietro Tagliavento. Aveva appena compiuto ventuno anni. Sembrava più alto di quello che era veramente grazie al suo portamento fiero. I capelli erano del colore di un incendio di rovi visto attraverso una nube di polvere. In testa portava un cappellaccio inclinato in modo esagerato. Gli occhi erano grandi color azzurro fumo e sembravano annoiati. La mano sinistra sempre in tasca, la destra al fucile in spalla. Aveva letto con fervore tutte le pagine scritte fino ad allora sul comunismo e grazie a queste e alla sua dialettica riusciva a tagliar corto qualsiasi discussione. La resistenza era destinata per ragioni socio economiche a trionfare, concluse così la discussione che avevamo intrapreso quella sera illuminata da un fuoco quasi spento nella nostra capanna fatta di tavole di legno e pietre tonde raccolte dal letto di un torrente. I giudizi di Pietro Tagliavento m’impressionarono meno del suo tono, ma i miei compagni ne furono completamente entusiasti. Quella potente iniezione di fiducia seppur teorica e nella maggior parte delle volte nebulosa, infuse in tutti loro un rinnovato coraggio e buoni propositi.

Era già notte inoltrata, una notte senza luna, quando la porticina sbatté all’improvviso ed entrò il Biondo con una faccia che non avremmo mai voluto vedere. Un attimo dopo uno scoppio improvviso ci fece balzare in piedi come molle e senza dire parola facemmo scattare all’unisono il caricatore dei nostri fucili. Uscimmo e immediatamente vedemmo i bagliori che illuminavano per un brevissimo istante volti duri, seguiti dal rumore che i proiettili facevano conficcandosi nelle assi di legno della capanna. Una voce gridò in tedesco di fermarci. Facemmo l’esatto contrario. Cominciai a correre, ma fatti pochi passi mi resi conto che Pietro Tagliavento si era rannicchiato a terra in una strana posizione che non aveva nessun senso in quel momento, quasi stesse pensando affascinato dalle sue meditazioni. Asseriva col capo. Lo tirai su di peso e me lo caricai letteralmente sulle spalle. Capii in quel preciso istante che dietro la sua tanto millantata superbia mentale si nascondeva un codardo. Un codardo nel posto sbagliato al momento sbagliato, soprattutto per me.

Vidi cadere sotto i miei occhi il Carbonaio e Mirko. Stavano correndo uno alla mia destra l’altro alla mia sinistra. Non mi fermai, con Pietro Tagliavento sulle spalle che mi dette la netta sensazione di essersi addormentato. Gli spari cessarono, evidentemente avevano catturato vivo uno di noi, era l’unica spiegazione plausibile. Rimanemmo soli. Passammo nel bosco senza quasi mai aprire bocca circa nove giorni, nove giorni nei quali mi avvicinai molto al primo paese vicino, dove sapevo si trovavano nascosti dei compagni partigiani. Ceneri e fumo si aggiravano nel paese. A un angolo di strada vidi un cadavere, nero.

Scendemmo ancora verso valle nel paese vicino, sempre di notte, sempre percorrendo almeno il triplo della strada più corta per andare da un punto all’altro. Trovammo rifugio in una villa padronale abbandonata per fortuna da pochi giorni. Eravamo allo stremo delle nostre forze, ma l’obbiettivo era arrivare a Pistoia e lì cercare un rifugio tra gente che stava dalla nostra parte. Pietro Tagliavento continuava a dire di sapere cosa fare e dove andare, lo ripeteva col tono di una preghiera, sommesso, scandendo sillaba per sillaba come un mantra, in realtà si era completamente perso nella sua paura, nel suo essere inutile a se stesso e a me.
Restammo rinchiusi lì dentro tre giorni interi. I soldati tedeschi pattugliavano la zona ma io comunque riuscivo a uscire per cercare viveri e acqua per tirare avanti ed aspettare il momento propizio alla fuga. Pietro Tagliavento restava nella villa ad aspettarmi ormai completamente inerme agli avvenimenti che lo circondavano. Al mio rientro lo trovavo accovacciato in un angolo della soffitta dove dormivamo. Guardava le assi del tetto, immobile, inesistente. Ormai non parlavamo da giorni, non speravo più di riuscire ad entrare in comunicazione con lui, qualsiasi tipo di comunicazione.

La mattina del terzo giorno rientrai dal mio giro intorno a mezzogiorno. Non lo trovai al suo solito posto in soffitta. Scesi a cercarlo ai piani inferiori. Udii la sua voce dietro la porta chiusa della sala da pranzo. Dal tono capii che stava parlando ad una radio, come diavolo aveva fatto a procurarsela. Poi udii il mio nome, poi che sarei tornato alle quindici, poi che avrebbero dovuto arrestarmi mentre attraversavo il giardino, poi sentii la parola oro. Lo udii esigere delle garanzie sulla sua sicurezza.
Il mio intelligente amico stava intelligentemente vendendomi.

Qui la mia storia è sommersa da una coltre di nebbia impenetrabile, umida, rabbiosa, ma soprattutto confusa. Ricordo il suo sguardo quando aprii la porta. Ricordo urla agghiaccianti. Ricordo che cercai di prenderlo ma mi sfuggì, conosceva la villa molto meglio di me. Ricordo che sentii dal piano terra molti piedi che si avvicinavano a noi. Lo persi un paio di volte di vista ma alla fine riuscii ad essergli addosso e lo gettai a terra prima che fossero addosso a me. Ricordo che mi pervase una potente sensazione di freddo dentro e fuori dal mio corpo. Le dita della mia mano sinistra si strinsero al collo del giuda, la destra impugnava già il coltello a serramanico che non ricordo quando avevo sfoderato. Lo tenevo stretto impugnandolo con la lama verso il basso. Gli impressi sul volto, per sempre, un enorme sfregio di fuoco.
Qui l’Italiano s’interruppe. Era percorso da un fremito irrefrenabile.

– E Pietro?- chiesi.
– Incassò l’oro e fuggì in Argentina.-
Non so cosa si dipinse sul mio volto, non so cosa fece il mio corpo in quell’istante in cui tutto mi fu chiaro. Capii l’infinita infamia e codardia del tradimento di un amico. L’orrore, il disprezzo, il coraggio, la rassegnazione, come in un quadro astratto tutte queste immagini distorte e piegate su se stesse si materializzarono nella mia mente. In quel momento ero fuori dal tempo e dalla ragione.
L’Italiano si alzò, mi dette le spalle e disse:
-Il mio nome è Pietro Tagliavento.

Davide Arnetoli