Il caldo, l’arbitro, il boicottaggio della Fifa… mancavano solo le cavallette tra le giustificazioni addotte a fine partita da Prandelli al giornalista che invece usava l’unica parola giusta per descrivere la sconfitta contro l’Uruguay e la conseguente eliminazione azzurra: fallimento. Un fallimento così totale da rendere le dimissioni un atto dovuto, più che per dignità, per decenza.

Mai si era avuto nella storia della Nazionale Italiana un commissario tecnico con così pieni poteri (e lauto stipendio) con i media sempre dalla propria parte, anche dopo le quattro sberle prese dalla Spagna agli Europei del 2012 (il punteggio più pesante per un finale di una competizione internazionali di tutti i tempi). Troppo forti si disse allora ed era vero, ma su quella “non vittoria” si sono poste le ragioni di un dominio ancora più assoluto di Prandelli, che si è sgretolato dopo l’eliminazione al primo turno, contro un Uruguay tutt’altro che irresistibile.
Sia chiaro: lo stile di Prandelli ci ha riempito di orgoglio in più di un’occasione. Le campagne contro il razzismo, le belle parole sui “nuovi italiani”, il codice etico, il tentativo di dare una visione moderna del calcio italiano. Il problema è che alla lunga quello stile, quel consenso trasversale, insieme al secondo posto agli Europei, è parso la cartina di tornasole per coprire le lacune di una squadra che ormai da tempo non riusciva più a chiudere una partita, rimediando solo scialbi pareggi con formazioni modeste.

Eliminazione che sulla carta poteva anche starci, vista la difficoltà del girone, ma che non trova consolazione dopo aver esordito vincendo in quella che alla vigilia sembrava la gara più difficile, quella contro gli Inglesi. Ma soprattutto brucia la sensazione di aver buttato al vento una qualificazione che sembrava spianata per il più veniale di tutti i peccati: quello della presunzione.
Chiariamoci subito, avevamo una squadra modesta. Bastava scorrere i nomi dei 23 convocati e fare il confronto con le precedenti edizioni dei mondiali, per rendersene conto. Soprattutto in difesa. Perché se l’unica certezza è quel Barzagli che nel 2006 era la terza scelta (dietro Nesta e Materazzi), qualcosa lo vorrà pur dire rispetto a quanto prodotto dal calcio italiano negli ultimi anni, in quello che era il nostro punto di forza. Tre goal subiti nel torneo, tre goal arrivate da palle alte in cui la difesa si è fatta ogni volta buggerare.

Ma quella squadra modesta qualcuno l’ha comunque costruita forte delle proprie convinzioni attraverso delle scelte che, alla luce dei fatti, si sono dimostrate sbagliate.
Perché è stata una scelta quella di lasciare a casa Diamanti (reo di essere passato alla corte di Lippi in Cina), per portare la giovane riserva del Napoli Insigne. E’ stata una scelta dare l’ennesima seconda chance a Cassano e non richiamare Totti (che in Brasile sarebbe venuto a nuoto). Così come è stata un scelta lasciare a casa gli altri due campioni del mondo alla seconda giovinezza come Gilardino e Toni, che avrebbero dato un contributo decisivo in esperienza.
Perché è stata una scelta lasciare a casa Pepito Rossi, dopo averlo illuso per cinque mesi, depennandolo al momento della partenza dalla lista dei 23, trattandolo a pesci in faccia, come un ragazzino bizzoso.

Ciò che infatti ha più sorpreso nella gestione di Prandelli è stata la gestione umana di quei calciatori su i quali aveva più scommesso.
Emblematico il caso di Paletta, un buon giocatore ma non certo Beckenbauer. Fortemente voluto nonostante scarse condizioni fisiche, titolare dal primo minuto, sbattuto fuori al primo errore. Bruciato. Lo stesso vale per Cerci e Insigne, giocatori senza alcuna esperienza internazionale, fortemente voluti dal ct che a termine della gara con la Costa Rica, nella quale sono stati inseriti a risultato già compromesso, scaricando su di loro la responsabilità di una sconfitta, parlando di tradimento.
Emblematico anche il caso di Balotelli. Eletto da Prandelli come attaccante attorno al quale costruire una squadra, ma senza poi costruirla, caricando sulle sue spalle tutto il peso dell’attacco. Va a segno contro l’Inghilterra e Prandelli invece che ringraziarlo, lo cazzia “deve fare di più”. Balotelli si innervosisce. E da allora non Mario ne ha azzeccate più una.

Ma veniamo alla gara con l’Uruguay. Terza partita. Terza formazione. Terzo stravolgimento tattico. A Balotelli viene finalmente affiancato Immobile, ma senza nessuno in grado di servire le due punte il problema, rispetto a prima, raddoppia. Balotelli ha giornata storta, ammonito, sarà squalificato. Prandelli decide di sostituirlo all’intervallo e ci può stare, ma ciò che non torna è che entri al suo posto Parolo. Non esiste che una squadra sullo 0 a 0, a cui basta un pareggio, decida di sostituire un attaccante per un centrocampista, questo lo si fa dopo aver messo al sicuro il risultato. E’ una verità che si impara alla scuola calcio. Tenuto poi conto che contro una squadra sorniona e cinica come l’Uruguay, il risultato non è mai al sicuro.
Ma soprattutto perché Parolo e non Cerci, che con Immobile ha giocato insieme per tutta la stagione e che insieme hanno segnato trentacinque reti in due?
Quando poi Immobile è stato colto dai crampi e al suo posto è stato inserito né Cerci, né Insigne, ma l’attaccante più lento a disposizione: l’ectoplasmatico Cassano, il “capolavoro” si è manifestato in tutto il suo splendore. E il goal di Godin è apparso quasi consequenziale.
Giocare i minuti finali della partita con la coppia d’attacco Cassano-Parolo, è una di quelle cose che noi umani non avremmo mai potuto, né voluto immaginare. E nei momenti in cui il debosciato e morsicato Chiellini (poche storie Suarez stava dalla nostra parte) è diventato centravanti è arrivato l’ultimo squillo di tromba dell’apocalisse dell’eliminazione imminente.
Buffon che, tornato finalmente superbo tra i pali, ha finito la partita da attaccante. Ed è stato bello sognare, per quei pochi secondi, che potesse essere proprio lui a indovinare l’inzuccata vincente. L’avrebbe meritato più di tutti gli altri.