Cosa significa architettura dell’occupazione civile? Cosa s’intende per architettura forense? Quali sono i rischi di trasformare un campo profughi, per natura insediamento temporaneo, in una città permanente? Quali i mezzi per decolonizzare un territorio e quali gli effetti? Quanto la gestione di uno spazio può mutarsi in strumento di dominio e di controllo politico? E soprattutto cosa ci dicono le rovine della Striscia di Gaza? Tra i massimi e autorevoli analisti della relazione tra architettura e conflitto, l’architetto e teorico di origini israeliane Eyal Weizman cercherà domani, lunedì 4 maggio alle ore 18, nell’ambito della rassegna Changes/Cambiamenti, organizzata dal Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, di far luce su questioni complesse e controverse in un acceso dialogo con il giornalista Wlodek Goldkorn.

Professore e fondatore del Centre for Research Architecture al Golsmith College di Londra, membro dal 2007, insieme a Sandi Hilal e Alessandro Petti, del collettivo Decolonizing Architecture Art Residency con base a Beit Sahour/Palestina, Eyal Weizman applica la metodologia di ricerca architettonica a questioni umanitarie di grande attualità, esaminando come le mutevoli forme della rappresentazione architettonica — sorveglianza satellitare, rielaborazione in 3D del territorio — vengano sempre più usate come “evidence/testimonianza” nei tribunali internazionali. La sua ricerca e le numerose pubblicazioni sulla politica dello spazio hanno dato vita a un nuovo campo di studi: l’architettura forense — accertamento multidisciplinare di “testimonianze/prove” dello spazio che possono essere presentate nei tribunali — definita da Weizman “archeologia del passato più recente”. Quelle stesse “prove” di crimini nascosti che l’artista e filmmaker indiano Amar Kanwar ha raccolto nel corso di due decenni nei suoi film e installazioni — riguardanti nel suo caso la comunità indiana della regione di Orissa (affacciata sul Golfo del Bengala), progressivamente espropriata ed estromessa dal territorio in cui ha radici millenarie — in una vera e propria “poetica della testimonianza”.

Diventato noto nel 2003 per la mostra A Civilian Occupation, The Politics of Israeli Architecture, rifiutata dall’Associazione Israeliana degli Architetti e ospitata in numerose città, tra cui New York, Berlino, Rotterdam e San Francisco, Weizman fa interagire l’architettura con l’arte, la scienza forense, i diritti umani, la filosofia e la politica, facendo confluire intorno al suo Forensic Architecture Project, artisti, filmmaker, architetti e sociologi provenienti da tutto il mondo per studiare l’architettura in relazione alla legge umanitaria internazionale e collaborando con numerose ONG e le Nazioni Unite. In merito alle nuove forme di colonizzazione temporanee, Eyal Weizman ha sostenuto che “non sono più organizzate da un’unica entità, ad esempio il governo, ma da un sistema di occupazione. L’urbanizzazione, creata così, è emersa per moltiplicazione di situazioni che appaiono e spariscono rapidamente. È una forma di colonizzazione elastica, in costante cambiamento, instabile… Nonostante l’elasticità, non per questo l’occupazione è meno violenta, al contrario è un sistema di controllo costante dello spazio e in costante trasformazione”.

Eyal Weizman è architetto, professore di Spatial & Visual Cultures e direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College di Londra e Princeton Global Scholar. Nel 2011 ha istituito la Forensic Architecture, agenzia di ricerca che mette a disposizione testimonianze architettoniche in casi di crimini di guerra e in difesa dei diritti umani. Il suo lavoro sulle mappe della Cisgiordania e sull’architettura delle colonie è stato utilizzato davanti a tribunali internazionali. Ha insegnato architettura all’Academy of Fine Arts di Vienna, alle Städelschule di Francoforte, al Berlage Institute di Rotterdam ed è Professeur invité all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi. Dal 2007, insieme a Sandi Hilal e Alessandro Petti, è membro fondatore del collettivo Decolonizing Architecture Art Residency con sede a Beit Sahour/Palestina. Tra i suoi libri, pubblicati in italiano: Architettura dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele (Bruno Mondadori, 2009), Il male minore (Nottetempo, 2009) e Il minore dei mali possibili (Nottetempo, 2013). Ha vinto il premio James Stirling Memorial Lecture Prize per gli anni 2006-2007 e, col suo collettivo DAAR, ha ricevuto il Prince Claus Prize for Architecture. Maggiori informazioni: www.forensic-architecture.org

Saggista, giornalista e fino al 2013 responsabile cultura del settimanale “l’Espresso”, Wlodek Goldkorn si è trasferito dalla Polonia a vivere in Italia nel 1968. Negli anni ’80 ha fondato e diretto i periodici sull’Europa Centrale e dell’Est “L’ottavo giorno” e “L’Europa ritrovata”. È co-autore con Assuntino Rudi de Il Guardiano. Marek Edelman racconta e con Massimo Livi Bacci e Mauro Martini del volume Civiltà dell’Europa Orientale e del Mediterraneo. È autore de La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità.