Niccolò Fabi e il suo nuovo viaggio assieme ai GnuQuartet fa tappa a Prato, domani sera giovedì 16 luglio, in un Anfiteatro Pecci sold out. Dopo il successo col Tenco come miglior album al suo ultimo “Ecco” e la grande impresa assieme a Daniele Silvestri e Max Gazzè con un disco, un tour europeo e uno nei palazzetti d’Italia, il cantautore romano torna “in solitaria” per poi andare in letargo ad autunno per riiniziare a scrivere nuove canzoni per il prossimo album. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare come affronta questo periodo della sua carriera: la parola che verrà più spesso fuori sarà “viaggio”.

Fabi Silvestri e Gazzè: un viaggio che sta arrivando al termine dopo più di un anno tra palazzetti dello sport e tour europei. Cosa ti riporti a casa da questa avventura collettiva?

Sono tante le cose. Da una parte il fatto di aver vissuto un’esperienza più “leggera” che il mio essere cantautore da solo, perché ho condiviso il percorso e le scelte si alleggerisce tutto. E così lo abbiamo vissuto noi tre, anche con meno responsabilità se vuoi. Quando canto da solo c’è da parte mia una forte identificazione, a volte anche un peso importante da sostenere. C’è stato anche un divertimento maggiore, e la possibilità di lavorare al fianco di questi due professionisti oltre che amici, due artisti che hanno raggiunto una maturità.
Ho potuto scrutare da vicino il loro modo di essere cantautori, il loro modo di rapportarsi alle interviste, a un contratto a un sound check venuto male. E poi ho potuto vivere esperienze uniche, come l’esperienza di un suonare in un palazzetto dello sport, cosa che da solo non sarei riuscito a fare. E’ come se ora avessi un nuovo brevetto da sub o una patente nuova.

Quali sono le caratteristiche comuni dei cantautori che sono venuti fuori da Il Locale di vicolo del Fico a Roma – piccolo clube dal quale sono partiti tra gli altri Fabi, Gazzè, Silvestri, Zampaglione, Sinigallia, ndr. -, nomi che poi hanno segnato la canzone d’autore degli ultimi 20 anni?

I nomi che citi hanno un grande aspetto in comune: il fatto che abbiamo in una formazione da band. Tutti noi nasciamo come musicisti prima che cantanti o autori di testi, quindi con una predisposizione agli arrangiamenti o comunque al lato musicale più che a quello delle parole. Eravamo più legato a Lucio Dalla e a Battisti, rispetto a De André: al loro modo di approcciarsi alla canzone, suonata in quella maniera.
Siamo stati la prima generazione ad avere un’autonomia produttiva, grazie alla tecnologia: registravamo i dischi in casa, un privilegio rispetto a tutti gli altri che dovevano passare dall’arrangiatore, dal produttore, dagli studi. Tutti filtri che possono mutare in maniera sostanziale la musica di un musicista. E poi l’esserci frequentati, stimolando una sana competizione. Andavamo in un locale, ascoltavamo un gruppo forte e, il giorno dopo ci rimettevamo al piano o alla chitarra con un’altra forza, frutto degli schiaffi che avevamo preso la sera prima ascoltando gli altri.

Perché dopo un tour europeo, uno nei palazzetti hai sentito l’esigenza, prima di fare un secret tour in locali minuscoli a giro per l’Italia, e adesso con gli Gnu Quartet?

L’alternanza degli stati emotivi è una necessità umana. Ogni cosa ti fa sentire la mancanza del suo opposto: non c’è una cosa tra queste che preferisco, rispetto all’altra. Lo so benissimo che le mie caratteristiche si sposano con cose più intime. A prescindere da questa predisposizione, voglio cerco di continuo di non viziarmi. Confrontarsi con queste altre situazioni è una palestra, e io, come un atleta, mi devo allenare.

Le due canzoni che portano la tua firma all’interno del “Padrone della Festa” hanno, forse per la prima volta, forse, nella tua carriera un nome proprio nel titolo “Anna” e “Giovanni”. C’è un motivo? Sperimenti nuovi modi di composizione?

E’ vero. Anche lì mi ha influenzato il concetto di “gruppo”: quando si è in tanti a dover cantare una canzone devi cercare un modo meno personale di scrivere, io l’ho utilizzata come una molla creativa. Ho pensato a canzoni condivisibili: mi sembrava una buona chiave parlare di altre persone, dando loro un nome proprio e non in prima persona, come spesso mi succede scrivendo.

La tua “indipendenza artistica” che in tanti ti riconoscono e che hai anche cantato nel tuo ultimo disco come te la sei guadagnata?

Della mia parabola di questi 18 anni ne sono orgoglioso. E’ stata svincolata dalla preoccupazione dell’esito commerciale: non vuol dire essere disattenti, ho sempre voluto scrivere cose chiare al pubblico, sempre. Son stato aiutato prima di tutto da un talento personale: sono più adatto a esprimere inquietudini dell’età matura, rispetto alla rabbia e la gioia più adolescenziale. Questo sia per caratteristiche vocali che caratteriali. Altri miei colleghi son stati bravi a scrivere cose più giovanili, immediate e andando avanti hanno perso però un po’ di credibilità.
Se da una parte c’era questa caratteristica naturale, dall’altra ho corso dei rischi, laddove sapevo bene che alcune scelte un po’ più facili avrebbero allargato il mio pubblico. Sto parlando dell’aspetto mediatico e di scrittura, soprattuto. Comunque ho più pubblico adesso rispetto a 18 anni fa, quando andavo più in televisione. Le persone che mi seguono sono in sintonia con me, credono in quello che canto, ci si rispecchiano. L’indipendenza la verifichi con la tua coscienza quando sei con un foglio, la penna e la chitarra, non tanto se hai un contratto con una major o meno.

Parlando di scena musicale, esiste oggi un mercato indipendente? cosa ne pensi?

Sicuramente la frequento e l’ascolto di più rispetto al mainstream, amo molto la “scuola siciliana”: Colapesce, Dimartino, credo che riescano ad utilizzare un linguaggio popolare, che arriva a tutti. Dimartino 15 anni fa avrebbe avuto un contratto con la Sony per quattro dischi, sicuramente. Non amo molto il dibattito sull’esistenza o meno di una scena indipendente. Dovremmo imparare una cosa dagli americani, tra le tante che copiamo loro, forse: più rispetto tra artisti, indipendenti o meno. Lì vediamo Bon Iver che quando parla di Lady Gaga le fa i complimenti perché riempie un vuoto artistico che lui non riesce a colmare. Ecco, così dovremmo fare.

Prima di partire per i tuoi concerti solisti hai omaggiato in un video Ivano Fossati reinterpretando la sua “Lindbergh”. C’è qualcosa che ti lega a questa canzone?

Se dovessi eliminare l’idea del viaggio dal mio lavoro toglierei il 51%. E questa è stata una piacevole coincidenza: l’ho riascoltata per caso alla radio, mi ha detto delle cose che volevo sentirmi dire prima di ripartire per un nuovo viaggio e ho decisa di reinterpretarla. Un bel regalo da fare a chi mi segue.

Hai in mente di fermarti un po’ magari per lavorare a un disco nuovo?

Voglio andare in letargo per un po’, chiudermi in una dimensione più privata e silenziosa come penso ne sentano il bisogno ad un certo punto tutti quelli che fanno questo mestiere. Ma volevo avere negli occhi una situazione più cucita sulla mia misura, prima di fermarmi a registrare: non volevo che finisse con la standing ovation dell’arena di Verona che ho impressa nel cuore, insomma.
Poi fermarsi e rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle di questi anni: inizierò a settembre e poi vedremo quando uscire. Sicuramente non pubblicherò niente fino a quando non riuscirò a fare canzoni all’altezza o superiori alle precedenti. Essere severo con me stesso e cercare di alzare ogni volta l’asticella premia, soprattutto nei confronti delle persone che vengono a sentirmi ai concerti, anche quando non ho dischi nuovi da far ascoltare.