Emergency è una organizzazione non governativa che da 21 anni cura le vittime di guerra e della povertà, diffondendo la cultura di pace attraverso le centinaia di volontari sparsi in ogni angolo d’Italia. Ieri sera la presidente di Emergency, Cecilia Strada, era a Prato per partecipare a una serata organizzata all’ex chiesino di San Giovanni sul diritto d’asilo, iniziativa patrocinata dal Comune. Con lei il giornalista Christian Elia, ex inviato di Peacereporter e adesso costola dell’associazione milanese. E abbiamo colto l’occasione per farci spiegare da Cecilia e da Christian alcuni punti molto cari anche alla nostra città.

Qual è la caratteristica principale di una Ong come la vostra?

I volontari, che sono la spina dorsale di Emergency. Tutti questi ragazzi di grande volontà fanno due cose fondamentali sostanzialmente: raccolgono i fondi per sostenere gli ospedali, dove curiamo bene e gratis una persona ogni due minuti; e diffondono una cultura di pace e di diritti umani, organizzando dibattiti, conferenze, proiezioni e incontri. Anche a Prato abbiamo un gruppo di volontari che fra l’altro sta cercano altri volontari, perché non sono mai abbastanza le persone che denunciano gli orrori della guerra in un mondo sempre più vessato da conflitti che riempiono gli ospedali di feriti di ogni età e la società di povertà e disperazione. Il mondo è sempre più in fiamme, quindi ricominciamo a fare domande a chi di dovere, e a farle sempre più forte, perché saremmo anche stufi di contare le vittime.

Prato è una città che da decenni è crocevia di oltre un centinaio di popoli differenti che sono arrivati qua mentre la ricca città laniera entrava in declino. Lo spirito ricettivo dei cittadini è dunque rimasto assai provato da difficoltà economiche e sociali che hanno complicato la convivenza. I nuovi arrivi sono dunque vissuti molto spesso con paura. Quel è per te la ricetta per smettere di aver paura?

Il primo ingrediente della ricetta per far passare la paura è conoscersi. La seconda, lavorare sull’accoglienza affinché sia dignitosa per chi arriva e per chi accoglie. Fino ad allora diffidenza, timore e fastidio avranno la meglio. E tutto questo è  molto logico e umano, la paura è umana. È invece meno umano specularci su questa paura, creando per esempio emergenze sanitarie che non esistono se non per le persone che arrivano. Perché queste persone arrivano provate da un viaggio devastante, che spesso include una lunga permanenza in veri e propri lager in Libia, quindi non sentirsi esattamente un fiore è più che normale. Detto questo, non portano nessuna delle malattie che attribuiscono loro. Tutt’al più possono arrivare ammalati di scabbia, malattia che si cura con una pomata, o di malaria, che non è trasmissibile. Ma finisce qua. E anzi, se dobbiamo dirla tutta, queste persone si ammalano stando qui a causa delle condizioni di vita poco decorose, che noi di Emergency continuiamo a registrare durante le visite itineranti delle cliniche mobili del nostro Programma Italia. Chi non ha l’acqua potabile soffre di problemi intestinali, chi lavora nei campi ha tutte le varie patologie muscolo-scheletriche legate alla posture, chi lavora nelle serre sviluppa problemi legati ai pesticidi che si usano nelle serre. Sono tutte malattie che prendono qui legate alle condizioni abitative e lavorative. È stato spesso detto “l’Ebola arriverà sui barconi”, ma non esiste niente di tutto questo.

E cosa significa per te un’accoglienza dignitosa? Quali sono le condizioni da rispettare affinché possa essere definita tale?

La rapidità di reazione per i richiedenti asilo. La possibilità di mettersi in salvo in Europa attraverso i corridoi umanitari, canali legali e sicuri. La possibilità di essere inseriti nel mercato del lavoro e non in quello del lavoro nero e nel sommerso come vittime del caporalato. E’ indispensabile non ghettizzare le persone, ma integrarle, conoscersi appunto.

Ma in molti potrebbero ribattere: non c’è lavoro per noi, come può esserci per loro?

Questo è un problema strutturale, di come il governo organizza il mercato del lavoro in Italia. Non è sicuramente il problema di chi arriva. Non si può farne una colpa al ragazzo che è arrivato dal Ghana o dalla Siria. Magari ha più colpe il ministero della Difesa che si prende 80 milioni di euro al giorno per le spese militari… Ecco con chi il cittadino deve protestare.

Invece spesso si cade nella trappola della guerra fra poveri, additando chi ha meno di noi… vero Christian?

Esatto. Per questo occorre far pace col cervello, a un certo punto. Non si può auspicare un percorso di normalizzazione che prevede che diventino cittadini come noi, con gli stessi doveri ma anche con gli stessi diritti, compreso il sussidio, e poi lamentarsi se si trovano in fila con noi alla Asl o ai Servizi Sociali. L’alternativa è un percorso illegale che non porta niente di buono né per chi lo percorre né per la società. E comunque invece di credere agli allarmismi, informiamoci. Bastano i numeri dell’ultimo rapporto della Caritas per capire: da sei anni siamo un paese da cui i migranti vanno via e dove gli arrivi stanno scemando. Radio Migrante docet: sono anni che dice “basta l’Italia, non c’è più lavoro”. E quindi non cadiamo nella trappola del politico di turno pronto a servirti un piatto preconfezionato che comincia a essere sempre più banale e trito. Attenzione, non lasciamoci fuorviare, rimaniamo concentrati sulla realtà, su quello che veramente non funziona e che è l’intero sistema che calpesta i diritti di tutti.

Quindi non esiste un’emergenza profughi in Italia?

Non è certo l’Italia a poter dire di avere un’emergenza profughi. Se qualcuno può dirlo è lo Yemen o il Libano. E allora volete sapere dove vengono spesi quei 35 euro al giorno a richiedente asilo messi a disposizione dello Stato? Allora guardate la carte di mafia capitale, e non i 2,50 euro reali giornalieri del “pocket money” garantito a questa gente. Secondo me occorre una presa di coscienza. I dati sono lì e a disposizione di tutti. Chi non li vuole guardare amen, ma a quel punto il dibattito deve andare oltre. Non c’è tempo di fermarsi dietro al rancoroso che pensa che prendendosela con il più debole equivalga ad averla vinta.

Un suggerimento agli amministratori?

Ripensare i modelli di città. Se si guarda la Francia, paese che ha segnato la strada dell’immigrazione e che con l’Inghilterra ha vissuto prima di altri certi fenomeni, capiamo che il modello francese è sbagliato. Città disegnate in base all ‘appartenenza razziale sono molto pericolose e producono grosse distrofie. Basta studiarsi un profilo degli attentatori di Parigi per capirlo. Sono tutti francesi e scolarizzati, cresciuti in quel sistema che li ha ghettizzati. Per far sentire qualcuno parte di una comunità occorre basarsi sul criterio di cittadinanza e non su quello di identità. Se riesci solo a farlo sentire escluso, il risultato è scontato: la sciagura. E gran parte della responsabilità è dei media main stream che per fortuna stanno collassando.