Sandro Veronesi è in auto, il giorno prima del suo ritorno sui palchi pratesi con “Non dirlo”, da stasera a domenica al teatro “Magnolfi”(ore 21, 15 euro), e chiedendogli del monologo tratto dall’ultimo libro si avvertono innanzitutto due cose: la soddisfazione per la riuscita non così scontata del progetto e il fatto che sia già proiettato oltre. Ecco perché il discorso finisce sempre per piegare verso la Nave di Teseo, casa editrice nata per mano di un prestigioso gruppo di autori italiani e addetti ai lavori come reazione all’unione tra Mondadori e Rcs.

Mi sono chiesto se la partecipazione alla Nave di Teseo e la salita sui palchi di Veronesi fossero in qualche modo legate tra loro. Sono due nuove avventure per uno stesso filo conduttore. Magari, ho pensato, il monologo può essere una sperimentazione da riproporre in futuro: un nuovo tipo di promozione.
“No, l’esperienza sul palco mi sta dando soddisfazione ma non credo la rifarò più. Non era scontato che andasse bene ma riuscire a portare allo stadio finale questo progetto mi ha fatto capire che non era poi un’idea folle, quella che avevo avuto. E tutto questo considerato che le grandi catene di distribuzione hanno rubricato “Non dirlo” sotto la voce “religione” invece di inserirla in una più appropriata sezione chiamata “saggistica”, perché poi alla fine di saggio si tratta”.

Le grandi catene di distribuzione e le grandi realtà editoriali, proprio quelle dalle quali l’operazione Nave di Teseo vuole allontanarsi.
“Io ho abbandonato Mondadori ventuno anni fa, quando Berlusconi entrò in politica. Non potevo certo rimanere adesso in “Mondazzoli”. Detto questo è chiaro che sono le logiche economiche che guidano queste operazioni il vero pericolo per l’editoria italiana, anche perché in Italia non esiste una legge, come per esempio in America, che pone dei paletti a concentrazioni di questo tipo. Ce ne sarebbe bisogno. Perché se si domina il mercato, si possono fare per esempio politiche aggressive sui prezzi e quindi in qualche modo abusare della tua posizione mettendo in difficoltà tutti gli altri. E’ questo il rischio di certe politiche legate alla grande distribuzione”.

Insomma, gli editori indipendenti sono spacciati.
“No, non è vero. L’autore italiano e quello straniero più venduti in Italia sono editi entrambi da case editrici indipendenti, tanto per fare un esempio. Se in un anno pubblichi 50 autori e ne azzecchi quattro o cinque, allora sei a posto. Alla fine il gusto del lettore non lo stabilisce la casa editrice. Semmai è un problema, e un errore, tenere nel cassetto per vent’anni un autore come Camilleri, com’è successo. Ma è sull’autore e sul suo lavoro che bisogna concentrarsi. Al contrario, se il tuo primo interesse è l’economia, la letteratura passa per forza in secondo piano”.

Allora che futuro vede Veronesi per l’editoria in Italia?
“E’ una situazione delicata. Non temo le dimensioni e la potenza della concorrenza. Temo che il “gruppone” non vada bene. Cioè, se “Mondazzoli” non riuscirà a produrre i margini di crescita che vuole e addirittura comincerà ad arretrare, temo una reazione scomposta come potrebbe essere appunto quella di una politica aggressiva sui prezzi, e allora sì che i danni alle piccole realtà sarebbero pesanti. Quindi, è necessario che “mondazzoli” vada bene perché si limitino i danni alle altre realtà editoriali.  Poi c’è un’altra possibilità, cui non sta ancora pensando nessuno”.

Quale?
“Quella che tra due anni il gruppo venda tutto all’estero, o anche solo la quota di maggioranza, mettendo in atto una vera e propria speculazione. Ci sarebbe una grande levata di scudi immagino, con le conseguenti preoccupazioni per l’ennesimo pezzo d’Italia che viene ceduto all’estero. Una cessione che però potrebbe non essere una cosa completamente negativa, visto che i grandi gruppi editoriali europei che possono permettersi un’operazione del genere hanno tutto un altro modo di lavorare”.