Sull’ultimo film di Zalone è stato scritto tutto e il contrario di tutto, comprese tutte le sfumature dello “sticazzi” che stanno nel mezzo.

Avevamo espresso le nostre perplessità sul fenomeno all’epoca di Sole a Catinelle, le ripetiamo oggi di fronte a QUO VADO che è di fatto una replica del precedente film, senza nessuna evoluzione narrativa o stilistica.

Si ride? Qualche volta, soprattutto nella prima parte. Il film com’è? Fa abbastanza schifo.

Non ci stupisce il successo stellare, in un momento storico in cui la commedia dei vari Miniero, Genovesi, Siani ci appare così addomesticata e piatta e senza mordente che un personaggio sopra le righe e politicamente scorretto come quello inventato da Luca Medici, pur in un contesto produttivo di identica, assoluta medietà, finisce per sembrare l’unica “cattiva” novità in un periodo di pessimi cinepanettoni al risparmio. Inoltre Medici è stato furbo, non è apparso in tv per un lungo periodo di tempo – e ce ne dispiace perché lo sketch televisivo è, secondo chi scrive, il suo habitat naturale e di gran lunga migliore (l’imitazione di Vendola per dire è un capolavoro nel suo genere) mentre al cinema film dopo film il personaggio sembra perdere naturalezza.

Stupisce piuttosto, di nuovo, la rincorsa idiota della critica che per paura di non intercettare il polso del pubblico generalista si lancia in lodi fuori misura per il genio di Zalone. Paragonandolo a Sordi, tirando in ballo la commedia all’italiana. Quando il cinema di Zalone è proprio l’anti-commedia all’italiana, non solo perché i suoi film sono visivamente brutti, stilisticamente sciatti, costruiti alla meno peggio mentre nella peggiore tra le commedie della Commedia all’Italiana storica si può riconoscere almeno la qualità del lavoro delle singole maestranze, ma anche e soprattutto per la totale assenza di un punto di vista, di uno sguardo, di una presa di posizione qualsiasi che – senza pretendere il moralismo acre dei Grandi – potrebbe almeno garantire sviluppi narrativi meno meccanici e scontati.

Stupisce la boria del regista, Nunziante, un miracolato incapace di evolvere seriamente il proprio linguaggio dai tempi di Telenorba, che scomoda nelle interviste Gramsci sul “nazionalpopolare” e Roland Barthes per giustificare la “banalità degli intrecci”. E sticazzi, davvero.

Stupisce infine la straordinaria macchina del consenso, non tanto per l’okkupazione paramilitare delle sale, quanto per la mentalità che si sta diffondendo via social e nelle piazze: chi critica Zalone è ovviamente “invidioso” verso i suoi successi e “gufo” verso l’Avvenire del Cinema Italiano benedetto da Franceschini e Muccino. Zalone FA. Zalone “porta la gente al cinema”. Quindi occorre sospendere il diritto di critica. Per non passare da “radical chic”, epiteto che ha oggi più o meno il valore che “comunista” cominciò ad avere qualche anno fa (ma Fazio e Gramellini, lo ricordiamo, sono zaloniani). Dimenticate Monicelli come avete dimenticato Berlinguer, tanto li cita tutti e due per voi il catto-comunista Nunziante nell’ultima intervista al Giornale. Presto – si aprono scommesse – anche Veltroni dirà la sua rinnegando Nanni Moretti al posto dell’innovativo Zalone. “Nuovo” in verità come il terruncello di Abatantuono dei primi anni ’80, di fronte al quale probabilmente all’epoca sarebbe scomparso (per non dire dei Verdone o dei Troisi usciti dal tubo catodico), con la differenza che un numero ben maggiore di persone si identifica viuulentemente con l’orgoglio ‘gnurante della creatura diabolica creata dal furbissimo Medici.

Mentre l’atteggiamento del pubblico cosiddetto “pensante” è ormai da qualche anno subalterno nei confronti dei recenti vincenti, da Sorrentino a Renzi. Già disposto a sorbirsi riforme e aforismi di ogni tipo, il pubblico pensante non avrà difficoltà nel sopportare le tremende, stra-televisive canzoncine di Zalone, i tempi comici sballati da un montaggio delirante, la recitazione sempre più approssimativa di Medici e la messinscena ai livelli di una fiction di Canale 5. E di fronte a questo delirio collettivo a cui, volente o nolente, abbiamo finito per partecipare pure noi, ci piacerebbe tornare a trattare questi film con il giudizio sintetico che meriterebbero.

Si ride? Qualche volta, soprattutto nella prima parte. Il film com’è? Fa abbastanza schifo.

Non osando i “film demmerda” rivaleggiare con Zalone arrivano sullo schermo due ottimi film d’autore. Il ritorno di Todd Haynes al cinema, dopo il meraviglioso “Io sono qui” – tra le poche declinazioni originali del genere “biopic” – e la parentesi televisiva di Mildred Pierce, è CAROL, un altro melodrammone sirkiano, dopo Lontano dal Paradiso. Siamo ancora negli anni 50 ma stavolta il rapporto proibito è tra due donne, la meravigliosa coppia – in tutti i sensi – Blanchett – Mara. E se Lontano dal Paradiso aveva ancora tracce di formalismo, qui la passione brucia realmente lo schermo. Bellissimo.

Molto bello anche LA ISLA MINIMA (Marshland), sorprendente poliziesco spagnolo, con coppia di detective alla True Detective (sì, all’estero i produttori mettono i soldi per cercare di emulare le cose belle che si vedono sul grande e piccolo schermo), metafore politiche nemmeno troppo implicite e – finalmente – grande attenzione formale.

Sul versante cartoni la scelta obbligata è per il PICCOLO PRINCIPE, nonostante la presenza al doppiaggio di Pif, Siani etc etc. Versione molto romanzata del famoso libro, con la storia originale in stop motion e una nuova vicenda in animazione tridimensionale, orchestrata dall’uomo dietro Kung Fu Panda e quindi ruffianissima, straccia comunque il rivale povero, di riciclo MASHA E ORSO IL FILM, compilation di puntate inedite del cartone in cui la piccola russa sevizia in ogni modo un povero orso senza che gli animalisti s’incazzino (Sv3GLIA!!!1). In Italia ha già incassato quasi 4 milioni di euro in pochi giorni. Il Checco Zalone dei cartoni animati.