Sì, escono anche altri film, tra cui vale la pena di citare l’ottimo thriller A Most Violent Year (tradotto inspiegabilmente 1981: Indagine a New York) e Pride and Prejudice and Zombies, che contamina Jane Austen con gli zombie-movie.
Ma questa è la settimana di Hateful Eight, l’ottavo film di Tarantino.

E non date retta ai matusa tipo Mereghetti, capace di stroncare Mad Max Fury Road con lo stesso, logoro criterio: la noia, un tempo parametro solo dei critici di destra alla Mancuso. Che palle, Mereghetti, la “noia” al tempo dei salotti milanesi…la totale incapacità in quei luoghi grigi circondati dalla nebbia non solo di divertirsi ma pure di comprendere le ragioni del divertimento altrui. Pratesi, toscani, non fate cazzate, correte al cinema.

Perché il cinema è l’unico mezzo – per una volta concedetecelo, senza fanatismo – per godere e anche per capire un’operazione di questo tipo, generosa e folle. Il cinema come luogo sacrale – se siete cinefili anche un decimo rispetto a Tarantino – o almeno come “teatro” ideale in cui fruire pienamente dell’esperienza. E se Tarantino dice di voler portare Hateful Eight a teatro, per una volta, non dice una boutade. Nel frattempo ha trasportato al cinema un po’ della naturalezza immediata del teatro.

Se avrete la fortuna di vederlo in 70mm troverete libretto all’ingresso – come a teatro – e ouverture e intervallo musicali oltre a qualche minuto in più. Se non volete fare chilometri per amplificare l’esperienza almeno cercatevi uno schermo grande e immergetevi nella visione.

È chiaro, da subito, già nella prima lunga, splendida sequenza del film, che avete fatto bene a non vederlo in streaming: la fotografia di Richardson è in grado di superare, per densità, le prove precedenti con lo stesso Tarantino.

Sorprende immediatamente la colonna sonora di Morricone, più dalle parti di Milano Odia che della Trilogia del Dollaro, comunque quanto di più sanguigno e violento e dirompente il compositore abbia composto da trent’anni a questa parte. Tarantino alza il volume, fa tremare i timpani, quasi ad anticiparci che sì, sarà una faccenda soprattutto fisica.
Cade, nel ritmo adottato, nella preminenza dei primi piani, nella costruzione del racconto, nel dialogo abile, ma pure nelle pause, nei movimenti sempre sottolineati, come a teatro, tra uno spazio scenico e l’altro, la barriera tra spettatori e attori. E sembra di vederseli davanti, su un palco, gli interpreti. E non capita tutti i giorni di vederne così bravi. Basterebbe il trio che si compone all’inizio: il solito, monumentale Jackson, l’idolo Kurt Russell coi baffoni e una Jennifer Jason Leigh finalmente libera di esprimere a pieno tutto il suo demoniaco talento. Poi si aggiungono gli altri, certo: Walton Goggins, il feticcio Madsen, Roth che gigioneggia più di Waltz, un messicano irresistibile e un ottavo criminale a sorpresa.

Non date retta – questa volta – a Tarantino che cita Agatha Christie. Siamo lontanissimi dalle sorprese di Dieci Piccoli Indiani o di Trappola per Topi. È vero che tutti quanti mentono, ma l’interesse non è certo nella gestione dell’intreccio giallo, quanto nel delineare un labile e contagioso campionario di bugiardi, tutti accomunati dall’appartenenza a una nazione fondata sulla menzogna (il finale). È Tarantino il primo a mentire, tradisce le regole stesse del giallo, accumulando i falsi indizi. Nemmeno i colpi di scena sono autentici, perché arrivano quasi sempre da elementi fino ad allora esterni alla trama – forse l’errore più grave per un giallista e Tarantino certo lo sa bene. Ma troppo è il desiderio di raccontarli questi nuovi elementi, in un nuovo capitolo.
Molto più pertinente il riferimento alla Cosa di Hawks e Carpenter. Siamo di fronte al Tarantino più politico di sempre, pronto a prendere posizione pur nel caos delle bugie, mai così “morale” e crudele. Se i poliziotti razzisti che hanno boicottato il film in massa lo avessero visto, avrebbero avuto ancora più motivi per incazzarsi.

E se la teatralità sembra riportarlo alle origini del suo cinema – i fan de Le Iene adoreranno Hateful Eight – Tarantino abbandona un po’ di quella gioiosità ludica che dominava Death Proof e controbilanciava il capolavoro Inglorious Basterds. Il sacrificio del Cazzeggio segna un ulteriore passo avanti nei territori della Serie A. Per i temi che tratta, certo, già accennati nel più debole Django Unchained, ma anche e soprattutto per lo stile, mai così classico e rigoroso, mai così parco di zoomate da b-movie, più vicino agli americani degli anni 40-50-60-70, ad Hawks, ad Aldrich, pure all’”odiato” – per modo di dire – Ford (quella porta della stalla che ritaglia un quadro innevato all’interno del quadro del fotogramma). Il sangue scorre comunque a litri. Quello sì, più di sempre anzi. Il Pulp è salvo.