A Firenze, o meglio sui social degli appassionati di musica fiorentini, si respirava da giorni un’attesa incredibile. Nemmeno una finale di Champions, nemmeno un reunion postuma dei Beatles. I nomignoli si mischiavano ai nomi ufficiali. Qualcuno la chiama, la chiamava Polly, e si rivolgeva in post arzigogolati direttamente a lei. Senza dare nessun riferimento musicale, perché è scontato che Polly è Polly.

I biglietti erano stati comprati da tutti chiaramente in prevendita, perché non si può rischiare di non esserci. Del resto il costo era talmente popolare, circa 50 euro con la prevendita, e l’artista talmente famoso che il sold out era previsto con largo anticipo. Una previsione rispettata più o meno come il trionfo di Bersani alle scorse politiche.
Quello che è successo ieri sera all’Obihall ha comunque qualcosa di magico. E trascendiamo da quello che le orecchie hanno ascoltato: anche le mie, da maledetto miscredente e ateo nei confronti di Polly, sono rimaste veramente soddisfatte, per la bravura di colei e dei suoi musicisti.
La magia di ieri sera è la trasformazione del classico presenzialismo da concertino in rito collettivo. C’era tutta Firenze e non solo: ci sarebbe mancato, come nelle più classiche delle Cresime di provincia, un bel buffet dentro l’Obihall. Pazienza, ci siamo rifatti in coda dal davanti paninaio denominato LE VOYAGE, prototipo di gentilezza e qualità e onestà (fa anche ratealizzazioni a tasso zero).
Mai e poi mai avevamo assistito, parlando con gli avventori nel dopo concerto, a scene di totale dedizione di questo calibro. Nemmeno dopo un concerto degli U2 visto da cinque metri. Totale acriticità. Pochi commenti sul concerto stesso. Bene, benissimo. Ma andiamo a parlare del rito collettivo.

Capiamo subito che qualcosa di strano c’è vedendo gli strumenti, soprattutto la parte ritmica. L’ingresso sul palco dei musicisti, una decina, è una specie di corteo funebre. Perché abbiamo dimenticato, il colore della serata è il NERO. Lei vestita di nero, i musicisti di nero, il pubblico di nero per i tre quarti: ho rischiato di non entrare per le mie Stan Smith bianche e verdi, ma per fortuna non ci hanno fatto caso.
La prima donna, Polly, da lontano ci sembra proprio una Virginia Raggi vestita con gli abiti da casa di Morticia Addams. La band, chiaramente selezionata dall’Ofisa, ha contrattualmente l’obbligo di suonare solo accordi minori, e di non superare mai gli 85 bpm. Senza contare la questione già citata dei colori, che la vede official sponsor del Perlana ravviva nero.
Ci piace il concerto, va detto. Sia per la teatralità di Polly/Virginia, sia per la sua voce, sia perché almeno lei ha capito che i brani devono durare al massimo 4 minuti. Ci piace anche la situazione, perché sfogliando i social vediamo che l’85% dei nostri contatti ha postato una foto di Polly scrivendo commenti da “divina”, “madonna” e via discorrendo. Qualcuno degli addetti ai lavori in effetti qualche battuta osa farla, ovviamente cercando di capire chi ha davanti. Si vocifera che a qualcuno manchi la sua minigonna, o si parla del perché stavolta abbia scelto le piume di gallina nera Breda invece che quelle di piccione per la decorazione dei capelli.
Si accendono le luci, ci abbagliano le luci ed il pubblico di Polly se ne va. Un pubblico adulto, va detto, in cui una percentuale ingente è ancora in preda all’estasi post esibizione di una delle principali esponenti del partito “donne che piacciono alle donne”, in la cui presidentessa onoraria Audrey Hepburn sta per essere comunque scalzata da Tilda Swinton. Ci dovevamo essere, e ci siamo stati. Ci stiamo disintossicando oggi, con Police e Beach Boys.