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Teatro, Firenze, lunedì. Migliore incipit per una “situazione”, per una “performance” di un “progetto” non ve ne erano: del resto l’Obihall è occupato in pianta stabile dagli scissionisti del PD e il Mandela è troppo grande ed è, diciamolo, un po’ cafone. Teatro, teatro, teatro.
I Baustelle, la massima espressione toscana e italiana di musica pop d’autore, torna a farci visita dopo l’uscita del nuovo lavoro “L’amore e la violenza”. Un disco che è stato croce e delizia degli internettologi di fortunata e gabbaniana memoria, con giorni di martellamento social e di battaglie all’arma bianca fra le fan storiche del “Bianconi-pensiero” e gli “odiatori da folla” tipo manifestazione contro Uber.
Insomma ci siamo. Che la band di Montepulciano non sia mai stata avvezza ad atmosfere solari ci era noto, ma scegliere per la loro esibizione una serata in cui si è abbattuta sulla città gigliata una quantità di pioggia pari alle precipitazioni annue di Gela, insomma, vuole dire che c’è dello spessore.
Ombrelli all’ingresso depositati, grande viavai, grandi ritardi. Ritardi non ci hanno permesso purtroppo di ascoltare l’artista di apertura, il giovane e strambo Lucio Corsi. Avremo modo di rifarci, che il ragazzo grossetano, una sorta di Mick Ronson incrociato con Mark Bolan e Alberto Radius in salsa piccante, sembra sia capace. Aspettiamo che si asciughino le scarpe mentre sorseggiamo un bicchiere di vino in quella strana zona del Teatro dell’Opera che somiglia tanto ad una sala da matrimoni della provincia di Latina.
Il teatro è strano per loro, lo è anche per noi. Perché permette di comunicare male, di non incrociare le persone che sapevi che c’erano e dalle quali avresti voluto un giudizio: ma è normale, il pop rock è fatto per altre scene, altri palchi. Ci sono sedie, numeri, persone sedute: anche se siamo abituati alle date del falso mistico siciliano sui tappeti o del sanguigno barbuto bolognese (“a sederrrrreee”), per Bianconi e c. la cosa non ci fa impazzire.
Arrivano, eccoli. I nuovi Ricchi e Poveri pensiamo, perché una band pop con una morettina, un baffuto ed un aitante ex giovane (in verità Angelo Sotgiu aveva più capelli), ti fa subito tornare in mente quello splendido capitolo della musica italiana, le cui sonorità sono state prese e rielaborate dai nostri cari Baustelle per questo disco.
Silenzio, eleganza, stile. L’ingresso trionfale in una suggestiva penombra lascia intravedere lo snellissimo Francesco Bianconi che lasciati i trascorsi decennali di “giacca dello zio modello Lebole 1976 e camicia con colletto moscio non stirata” indossa in stile dandy una camicia color azzurro portantino con foulard tono su tono. Seguono a ruota la brunetta, ovvero Rachele Bastreghi, che con il suo proverbiale stile abbina tacco alto con panta largo a banda gialla, in una sorta di rivisitazione di Fiorucci della divisa ufficiale dei Carabinieri e cappello a tesa tipo sombrero a lutto. Gli altri, incluso mister Brasini, se la cavano con un look pop/elegante/retrò che fa sempre la sua bella figura. Ottima la luminara in perfetto stile Discoring, ottime le luci e soprattutto l’acustica del Teatro dell’Opera.
Inizia il concerto, e come i Baustelle ci hanno insegnato, nella prima parte si esegue solamente l’ultimo disco. In una sorta di celebrazione da tesi di laurea, i nostri artisti rispettano la tradizione secondo la quale si porta prima il prodotto fatto ultimo, e poi per gli amanti, si fa un piccolo ripasso.
Tutto fila perfettamente, fra le cover di Sandokan (“Basso e batteria”), gli omaggi a Viola Valentino (“La musica sinfonica”) e le false cover di Franco Battiato (“Il vangelo di Giovanni”): Rachele esprime il massimo e si avvicina sempre più ad essere una Gianna Nannini in salsa noir mentre Bianconi ha trovato una quadra artistica sul palco mica da ridere. Empatia elegante, poche parole, sempre sommesse e remissive (“non ci uccidete abbiamo sbagliato un attacco”): il livello è veramente buono nonostante mi facciano notare dalla regia gli attacchi del baffuto leader senese siano spesso slungati quanto gli audio dei clip della Rai in RVM degli anni 80. Suona tutto comunque molto bene, in virtù del fatto che l’allestimento e la line-up è funzionale proprio al taglio di “L’amore e la violenza”.
La prima parte vola, con molto piacere, ed inizia il revival: l’atmosfera si scalda subito e ci stupiamo che un pezzo tendenzialmente bruttino come “Charlie fa surf” possa fare esplodere subito il pubblico: ma succede, anche Roberto Angelini è conosciuto per “Gatto Matto”. Il pubblico scende per ballare e poi risale, in un mix di pezzi in cui segnaliamo l’amatissima Gomma, che per una strana alchimia (i fan della prima ora si sentono giovani come 15 anni fa?) fa impazzire totalmente il pubblico, la sempreverde “La guerra è finita”, “La moda del lento” suonata in pratica da Neil Young e il capolavoro pop “Un romantico a Milano”, il brano più bianconiano dei bianconiani. Peccato che con un supporto di archi, vista la forma della band, sarebbe stata veramente un’apoteosi. Ma non si può avere tutto, la perfezione è qualcosa che apparteneva solo a Roberto Baggio.

Siamo felici, abbiamo visto l’eleganza quasi borghese e naif della musica italiana. Abbiamo visto quanto la bravura e la maturità di un artista possa scavalcare anche la retorica ed il citazionismo estremo. Se i Baustelle venivano definiti derivativi una volta, quanto realmente erano i Pulp nella trasmissione “Tale e quale”, dopo 20 anni hanno un loro marchio di fabbrica. Possono cambiare i dischi, le sonorità, gli strumenti, ma la ciclicità dei loro pezzi li contraddistingue in maniera talmente forti da riuscire a farli diventare, nel bene, una citazione di loro stessi. Usciamo dal Teatro, dove il bar è chiuso (argh), ed è finito di piovere. Ci sentiamo invecchiati al solito quei 2 o 3 anni, ma siamo felici anche se è lunedì.