Vasco Brondi - foto archivio

Con Vasco Brondi abbiamo appuntamento telefonico. Il suo “eccoci” squillante mi dà il benvenuto e ho subito la sensazione che davvero lui c’è, è attento e ascolta. In testa mi ronza “Qui”, la canzone dall’ultimo album. Ma devo concentrarmi e non distrarmi. Gli spiego che un po’ è come quando lui ha cercato Gipi per la copertina del suo primo album, che lo intervisto non per lavoro, ma perché lo seguo, lo leggo e lo ascolto. Allo stesso tempo sono in difficoltà perché in realtà nel diario di Terra contenuto nel cofanetto del suo ultimo album, ha già dentro venti interviste. Glielo confesso.

Vasco Brondi: Lo faccio apposta per scansarle!

Simona Baldanzi: Infatti. Consigliamo di leggerlo perché lì sveli i tuoi viaggi, il percorso di creazione dell’intero album, le collaborazioni, le “autostrade dei ripensamenti”, racconti il tuo lavoro. Mi ha colpito molto la tua curiosità e capacità di lavorare con gli altri, la quasi assenza di paura delle influenze, ma anzi, il voler crescere e imparare e l’affidarsi ad altri, cosa rara in questi tempi così individualisti. Come funziona questo lavoro con gli altri?

V: È una cosa piuttosto recente anche per me. Agli inizi facevo tutto molto da solo, mixavo, registravo, organizzavo. In dieci anni di questo progetto anche il mio percorso si è evoluto. È una dimensione che mi piace molto perché ho mantenuto quei momenti di solitudine creativa, quei momenti in cui non ne parlo con nessuno. Mi piace stare da solo, fare le mie ricerche. Poi c’è il momento di condivisione. In tour ad esempio siamo sempre insieme con le persone con cui lavoro e con quelle che ci seguono. Mi godo le contraddizioni di questo lavoro: dopo la biblioteca sembra incredibile, ma l’anno successivo sei in giro, dentro alla squadra. Mi piace, alterni lavori completamente diversi. Dal momento di raccoglimento assoluto al momento di condivisione.

S: Un’altra cosa che mi ha colpito è il percorso che hai fatto quasi di spogliarti del timore di approdi popolari, di insistere nel tentare di fare qualcosa di profondo e popolare insieme. Cosa è per te il nazional popolare?

V: Ma guarda, di base ho sempre avuto questo modo di relazionarmi. Il mio approccio non è di ricerca di una direzione ristretta, chiusa. Non mi pongo nessuna barriera, né estetica né di chiusura. Mi rendo conto adesso che poi alcuni aspetti agiscono a livello inconscio. A 20 anni avevo forse delle chiusure, inseguivo più l’essere punk, poi non ci credi, ma crescendo la libertà artistica aumenta. Hai più tranquillità, dipendi meno dalla comprensione e dall’accettazione degli altri.

S: Sveli anche che hai deciso di farti crescere la barba nelle Azzorre così la tua timidezza ferrarese è al riparo, così per strada non ti riconoscono.

V: Non vale più!

S: Eh infatti, come fai?

V: Mi metterò una maschera. (ridiamo)

S: Come vivi il rapporto con chi ti segue (e si droga delle tue canzoni, come me con Terra sentito a ripetizione)?

V: Chi mi segue, mi conosce solo perché conosce le mie canzoni, il mio progetto. Non ho chi mi ferma per strada. Devo dire che ho molto a che fare con persone intelligenti, si rapportano con me in maniera gentile, non ho l’ansia di chi si espone. In fin dei conti nel mio progetto non c’è la tv, non c’è la mia faccia ovunque. Il mio progetto è il mio progetto, non è la mia immagine. Non conta la mia vita privata. Posso vivere a Ferrara e evitare di parlare per mesi di musica. Mi dà grande tranquillità tutto questo, altrimenti rischierei di essere dentro a un lavoro totalizzante. Rischio poi di farmi condizionare dagli altri. Sono contento così perché sono condizioni che mi mettono al riparo.

S: Hai detto che il tuo ultimo album è una cartolina inviata dal posto da cui vieni. Lo direi per tutti i tuoi album, pur nelle diversità di ciascuno. Cartoline molto curate anche nelle immagini, nelle illustrazioni, nel contenitore che si mescola al contenuto. Anche il video di “A forma di fulmine” è un piccolo film. Da un tuo lavoro, insomma, nascono altri lavori ancora, in vere e proprie costellazioni. Che collegamento c’è con illustrazioni, fumetto, fotografia e forme d’arte visive e le tue canzoni?

V: Mi piacciono molto tutti gli aspetti, aggiungono valore al mio progetto. La copertina non è una cosa a sé, un aggancio, un atto promozionale. Lo usi come sfondo delle canzoni, è la scenografia. L’immagine dell’ultimo (Seven Magic Mountain dell’artista svizzero Ugo Rondinone) l’avevo ben presente quando le scrivevo le canzoni, ha fatto parte del lavoro. Con quelle immagini le canzoni possono essere ambientate, possono avverarsi.

S: La terra da cui spedisci queste cartoline è l’Emilia. Nel tuo libro Anime Galleggianti (La Nave di Teseo 2016) racconti di un viaggio lento su una zattera in un canale da Mantova al Po’ scritto a due voci con Massimo Zamboni. Ad un certo punto scrivi che sei stato fortunato a vivere in provincia, abituato alla noia, ai luoghi dove non c’è niente, dove quello da fare devi costruirlo tu. In contrasto con Milano, dove ne scrivi in Terra, con reperti di biciclette rimangono inchiodati al palo quasi eterne, perché in città non si sposta nulla. C’è ancora la noia alla base del tuo processo creativo?

V: Non la chiamo più così. Adesso mi pare che scompaia la noia. Nell’adolescenza è stata molto importante, mi è servita per darmi tempo, per leggere, per crescere, per costruire. Oggi rimane la funzione, cioè l’importanza di non avere distrazioni. È importante stare a Ferrara ed è importante viaggiare, fare insomma quelle cose che mi diano spazio, che mi permettano di non essere sommerso o pieno solo di scadenze. Anche adesso, per dire, ora che sono in tour e non sto scrivendo è come se scrivo, c’è una superficie ghiacciata, ma sotto scorre qualcosa, c’è, poi verrà il tempo di scioglierlo o farlo affiorare. Questo spazio serve a darmi tempo.

S: E con l’Emilia e con Milano che scambio c’è?

V: Ferrara è una calamita fortissima e allo stesso tempo respingente. Vivendo un po’ da una parte e dall’altra, sai che succede? Quando sono a Milano penso a Ferrara, quando sono a Ferrara penso a Milano. Sto bene da una parte perché so che c’è anche l’altra. Forse mi serve sapere che ci sono entrambe.

S: Canti “È un superpotere essere vulnerabili”. Ho pensato al terremoto in Emilia, inaspettato. E poi alla povertà, ai perdenti, alle guerre, ai viaggi dei barconi in balli terrificanti con gli scafisti, al terrorismo internazionale. Come hai vissuto il terremoto in Emilia e come vivi questa vulnerabilità moderna dalle mille facce?

V: In generale sono la stessa cosa. La vulnerabilità è una cosa da tenere sempre presente. È un grande antidoto, porta una certa serenità del qui e ora. Il terremoto e altro, sono un passaggio quello che stiamo vivendo. A me, devo dire la verità, tenere presente questa vulnerabilità piace molto. Dà il giusto peso e leggerezza alle cose.

S: Il tuo lavoro è sicuramente un laboratorio artigianale di parole. C’è attenzione alle parole marginali, agli accostamenti insoliti, al recupero, alle citazioni. In Anime Galleggianti racconti che con Jovanotti ti sei confrontato per il testo dell’Estate addosso sulla parola ruggine, che i ragazzi non conoscono. C’è bisogno di salvare, di recuperare e dare nuovi sensi alle parole? Come hai iniziato questo amore per le parole?

V: Non saprei, non me lo sono mai chiesto. Le cose le faccio perché sento di farle. Mi piace molto quando le parole di uso quotidiano, di dialoghi o comunque di altri usi diversi entrano nelle canzoni. Un po’ come nella musica quando entravano strumenti insoliti, di uso pratico, come martelli o altro. Mi piace usare parole che nella musica diventano altro, cariche di altri significati.

S: Vasco Brondi bambino cosa pensava di fare da grande?

V: Ah bo. No, non ricordo sai. Ormai non mi interessa.

S: Il primo settembre arrivi a Prato. Mi chiedo se nella programmazione dei concerti c’è un’attenzione al dove si suona, non inteso solo come piazza, pub, arena o palazzetto. Proprio come territorio, città o provincia, pianura o montagna. Tu ci pensi?

V: No, non l’organizzo io e non ne so molto. L’unica cosa che si sa del tour estivo e che mi affascina è il fatto di suonare nei posti più disparati, strani, dalle piazze, agli anfiteatri, ai parcheggi, alla riva del mare, situazioni insolite e diversissime, cambia moltissimo. Sento che in ogni luogo le canzoni si devono difendere. È una sorpresa ogni sera.

S: Quindi di Prato non ne sai molto?

V: Prato in dieci anni ci sono passato un po’ di volte, ma in realtà sì, la attraverso e basta.

S: Suonerai a Prato con gli Afterhours. Come ti trovi con loro? Come è nata la vostra collaborazione?

V: Ho sempre suonato con Rodrigo (D’Erasmo, violinista del gruppo). Un sacco di anni fa sono stato a suonare nei teatri con loro. Ci conosciamo da tanti anni, ci si incontra a Milano. Mi piaceva una serata così, fatta insieme a loro, con chi ho un vero rapporto che ci lega. Cantare con Manuel per me è sempre un po’ surreale. Ho iniziato a suonare anche perché c’erano gli Afterhours, che mi hanno mostrato un modo diverso di fare musica, di unire due cose che ho sempre amato, la loro elettricità insieme alle canzoni autoriali. Ricordo che c’erano queste canzoni d’amore al contrario, urlate, coi dispersori, con una scelta di testi e di parole che non avevo mai sentito. È stata una folgorazione incontrarli.

S: Si sa che spesso artisti, scrittori o cantautori, quando sono in tour, quando presentano e condividono la propria opera hanno già in testa i segni di quello che viene dopo o c’è l’inseguimento per un’altra strada. C’è forse il rischio di una nota stonata in questo, non c’è aderenza al tempo che viene vissuto, sei già altro, sei già oltre, ma è anche adrenalina, energia, movimento. Tu come vivi questa cosa? Quali progetti per il futuro? Altri viaggi?

V: Cerco di fare un po’ una cosa alla volta. Mentre registro sono lì. Mentre sono in tour, sono in tour. Succede poi che le canzoni si assestano in tour, cambiano, evolvono, è un’altra parte del lavoro che si compie. Mi piace sentirmi presente in quel momento. Trovo che sia una cosa molto forte trovarsi nello stesso posto nello stesso momento con le persone che vengono al concerto. In questi tempi connessi, di digitale, il concerto è altro. Porta con sé l’essere qui, la presenza, la condivisione con le persone che vengono a vederci. Quindi per ora il mio viaggio e i miei progetti sono per questa settimana coi concerti.

Lo ringrazio e gli auguro un buon concerto, sperando di aver mantenuto quella gentilezza di chi ama e conosce le sue canzoni. Sarò ad ascoltare lui e gli Afterhours in piazza Duomo a Prato il 1 settembre. Per me una goduria del qui ed ora, ma anche di tante finestre temporali che mi sbatacchiano dentro. Sarò concentrata e vulnerabile come durante questa intervista.

Bio Simona Baldanzi

Ha scritto Figlia di una vestaglia blu (Fazi 2006), Bancone verde menta (Elliot, 2009), Mugello sottosopra. Tute arancioni nei cantieri delle grandi opere (Ediesse 2011), Il Mugello è una trapunta di terra. A Piedi da Barbiana a Montesole (Laterza 2014). Suoi racconti sono apparsi su antologie e quotidiani. L’ultimo libro si intitola Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo 201&). Si occupa di salute e sicurezza sul lavoro a Prato. Il suo sito è www.simonabaldanzi.it