La piazza era piena, innegabile. Oltre 2500 persone, età media, diciamo, 20 anni. Dai 15 ai 25, il range stimato a colpo d’occhio. Una quantità esagerata di adolescenti e preadolescenti, soprattutto di sesso femminile, top e telefonino d’ordinanza, sempre acceso, e pronto all’urletto e al coro. Il concerto di Gazzelle ha richiamato in Piazza Duomo il suo esercito, stipato e ammassato sulle prime file, con la volontà di essere vicino al cantore della nuova malinconoia (citando Masini). Nulla da eccepire. Il pop è sempre stato, prima di tutto, una questione ormonale, soprattutto in quegli anni lì. Tutto normale, insomma.

Gazzelle, al secolo Flavio Bruno Pardini, romano di Prati, classe 1989 (quindi con più vita e più esperienza del suo medio ascoltatore) si inserisce nel filone del “nuovo indie romano”, che dalla metà degli anni 10 ha fatto il botto: quel pop da cameretta (definizione che negli anni 80 era propria degli Smiths, nei 90 degli Suede, oggi di Gazzelle: da notare la progressione qualitativa) introverso e un po’ psicotico. Dal punto di vista musicale, si tratta di pop, puro pop di consumo senza una particolare ricerca.  Sostengo da anni che questa nuova scena riprende un capitolo dimenticato della storia della musica italiana, soppiantata da canzone d’autore, rock o altre tendenze che di volta in volta hanno preso il sopravvento: entità come TheGiornalisti, Calcutta, Coez e, appunto, Gazzelle, sono figli naturali di quel pop da saponetta confinato tra la fine del 70 e l’inizio degli ottanta: Pupo, la Bottega dell’Arte, i Collage, il Giardino dei Semplici…canzoni che parlano d’amore e di quotidianità con un linguaggio immediato e raramente lontane dal giro di Do. I temi cambiano (nei 70 non si parlava così disincantatamente di droga e alcolismo) ma nemmeno più di tanto.  E la risposta del pubblico, mutatis mutandis nell’abbigliamento e negli strumenti a disposizione, è lo stesso.

Gazzelle ha un atteggiamento sul palco degno di Lou Reed. Non sorride quasi mai. Non si toglie mai gli occhiali da sole, guarda in basso fondamentalmente malinconico ma con sprazzi di felicità improvvisa (“Te lo ricordi, lo zucchero filato?”) in cui invita a spaccare tutto, a ballare come forsennati. Poi torna triste. Il suo lessico, oltre le canzoni, non va oltre il “bella raga”, “fatemi un urlo” et similia. Le canzoni più intime sono cantate rigorosamente in coro, con senso di appartenenza, e con un effetto “Carrozzone” di Renato Zero (i più anziani sanno di cosa sto parlando) involontariamente ironico. Nelle canzoni nasconde sprazzi di poesia (“Se fuori piove, io nevico”) e per far cantare la piazza intona solo voce brani di Irama e di Baby K che vengono continuate in coro dal pubblico femminile di cui sopra.

Sa benissimo che il mondo a cui fa riferimento è lo stesso degli Amici e degli X factor, alla faccia dell’indie e della Maciste Dischi. Saluta la mamma e il papà che si sono fatti tanti chilometri per venirlo a vedere. In fondo, sotto la scorza da piccolo uomo rude, rimane un bravo ragazzo.

E comunque, la piazza era piena. Quindi, almeno ieri sera, aveva ragione lui.