Quello a cui abbiamo assistito ieri sera in Piazza del Duomo, per la quarta delle serate del Settembre – Prato è spettacolo annata 2019 non è stato un semplice concerto. E’ stato una sorta di rituale collettivo in cui il rock, un certo rock lontano dal mainstream, ci ha riportato alle radici. Alle nostre radici, che non sono quelle del blues o degli spiritual: le nostre radici sono Luigi Tenco, Fred Buscaglione, Gianni Morandi, Adriano Celentano. E il fatto che sia un americano (anomalo, per carità, un californiano eclettico e, in quanto tale, innamorato perso dell’Italia) a ricordarcelo e a sbattercelo in faccia con uno spettacolo impeccabile quanto sontuoso nella realizzazione, è cosa singolare, rara e bellissima.

Mike Patton, leader dei Faith No More e di un’altra decina di progetti, s’inventò Mondo Cane una decina d’anni fa, con un tour in Italia in cui dichiarava il suo amore per la musica italiana dei sessanta. Questo progetto mancava dalle scene da molti anni: è stato voluto e rincorso dagli organizzatori di Fonderia Cultart per diversi anni. Quella di ieri sera è stata una serata che ha sancito la vittoria di una scommessa culturale. Perché quello di ieri sera è stato, senza ombra di dubbio, qualcosa di unico. 

Ieri sera in Piazza Duomo c’erano persone da tutta Europa. Degli oltre tremila, quasi mille sono stati venduti fuori dalla regione, e tantissimi fuori dall’Italia. E’ la prima volta che un concerto del Settembre ha questo tipo di risposta, assolutamente internazionale. E non con una star del pop più mainstream, ma con un mostro sacro del rock degli anni 90 che in un progetto certosino quanto folle resuscita lo spirito di una musica di casa nostra che nessun italiano è riuscito a resuscitare. Almeno non in questo modo.

Mondo Cane non è un esperimento sociale, né nostalgico: Patton, californiano classe 1968, gli anni del boom economico e delle rotonde sul mare non li ha certo vissuti. Il suo amore è per un modo di scrivere musica e soprattutto di arrangiarla, unica nel mondo. L’uso dell’orchestra, il gusto di mescolare il pop col jazz, Morricone, le colonne sonore, insomma, quel mondo lì. Un mondo musicale tutto italiano, degno di una rilettura nemmeno tanto distante dall’originale: il lavoro è sull’enfatizzazione di quella che era una musica tutto sommato orecchiabile ma difficile. Un plauso all’orchestra, quasi tutta italiana, che ha eseguito il tutto con gusto e precisione. Un team di eccellenze, anche qui.

Qualche nome: Enrico Gabrielli (Calibro 35, Afterhours, responsabile di molti degli arrangiamenti di ieri sera), Vincenzo Vasi (l’uomo del theremin, quello che sta dietro alle scelte musicali di Vinicio Capossela), il figlio di Alessandroni (uno che quel mondo l’ha vissuto da dentro, visto che suo padre compositore e arrangiatore di molte colonne sonore e di molto pop, oltre ad essere il fischio ufficiale dei western di Sergio Leone) e i violini della Camerata Strumentale Città di Prato, autentica eccellenza locale che benissimo si è inserita in questo contesto. E poi, lui. Uno che con la voce fa quel che vuole. Uno che ha le corde vocali di titanio. Capace di sperimentazioni alla Stratos, di sussurri e grida da un’ottava all’altra. Un virtuoso dello strumento vocale. La dizione perfetta dell’italiano, con qualche inflessione alla Mal (tanto cara al gusto italico dell’epoca) ha reso il tutto ancora più perfetto, se possibile.  La scaletta andava dal Cielo in una stanza a Scalinatella, da Lontano lontano al Celentano d’autore di Storia d’amore, da Modugno a Don Backy, da un Gianni Morandi non scontatissimo (Ti offro da bere) alla sigaretta di Buscaglione. Ma i pezzi da autentico brivido sono stati “L’urlo negro”, pezzo semisconosciuto dei Blackmen, per l’intro di puro rumorismo futurista e per l’esplosione nucleare del ritornello (“Non farti più vedere da me”) e quella “Yeeeeeeeeh” di Mal dei Primitives, pezzo che ha permesso a Patton continue variazioni di dinamica, dal sussurro alle grida, dimostrando tutte le potenzialità di una canzone che all’epoca era solo considerato un pezzettino da juke-box.  

Il finale, poi, ha fatto scendere qualche lacrima a chi segue Patton in tutti i suoi progetti. Che io sappia, la prima volta che un pezzo dei Mr. Bungle (Retrovertigo) viene eseguito in un contesto orchestrale. E mai bene come ieri sera.