Si è spento nella notte l’ex calciatore Paolo “Pablito” Rossi, aveva 64 anni. Nato e cresciuto a Prato, Paolo Rossi è stato l’eroe dei mondiali di calcio spagnoli del 1982. Quell’estate, i pratesi si riversarono intorno alla casa di famiglia a Santa Lucia per festeggiare ogni vittoria di una Nazionale straordinaria.

Paolo Rossi è un uomo dei record. Tra gli attaccanti italiani ad aver segnato di più in un mondiale (9 reti insieme a Vieri e a Baggio), è stato l’unico giocatore (in seguito avrebbe fatto lo stesso Ronaldo) a vincere il Mondiale, il Pallone d’oro e il titolo di capocannoniere nello stesso anno.

Anche se con la maglia della Juventus vinse due scudetti, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa e una Coppa dei Campioni, il suo nome è legato soprattutto al Mondiale del 1982, quello delle partite leggendarie contro Brasile e Germania, quello delle partite “all’ora della corrida” e di un calcio rimpianto da molti, fatto di ritmi più blandi ma non per questo meno emozionanti, dove i giocatori si misuravano a colpi di prestigio, di fatica e di magliette strappate.

Di quel mondiale lì, quello della pipa di Bearzot e del presidente Pertini che esulta dagli spalti, Paolo Rossi divenne protagonista assoluto con la sua faccia scavata dalla fatica e lo sguardo da killer dell’area piccola. Ne fece tre al Brasile di Cerezo, Zico e Falcao. Aprì le danze nella finale contro la Germania, quella dell’urlo liberatorio di Tardelli e del sigillo finale di Altobelli. Ma non ha mai considerato “suo” quel mondiale.

In un’intervista al Centro Pecci nel 2019, spiegò con la voce rotta dalla commozione a distanza di quasi quarant’anni: «Vi siete mai chiesti perché quel Mondiale è rimasto nell’immaginario collettivo della gente? È stata una vittoria di tutti. Non è stato Paolo Rossi che ha fatto sei gol ed è stato capocannoniere. E non è stata neanche la squadra. Quella vittoria è considerata la vittoria dell’Italia, nessuno escluso».

Più avanti gli viene chiesto di una frase «Guardavo i compagni, guardavo la folla e dentro sentivo un fondo di amarezza: adesso, dovete fermare il tempo adesso». Un momento, quello delle sensazioni del dopo-finale, che aveva già raccontato in un documentario della Fifa (e richiamate anche nella sua recente autobiografia ndr) di qualche anno prima e che rendono meglio di qualsiasi altra cosa il significato non solo di quel momento, di quella vittoria, ma anche di un certo modo di vivere lo sport.

«Rivedi la tua carriera, rivedi velocemente dove sei arrivato. L’altra sensazione era che mi dispiaceva che fosse finito il campionato del mondo. Questo forse per far capire che cos’è, oppure forse per capire cosa non è la felicità. La felicità che cos’è? È un momento, un decimo, un secondo, perché poi passa. Quando vinci una cosa importante non vinci solo il trofeo. Vinci con gli altri, vinci perché rivivi la vita che hai fatto, sono momenti di rivalsa. Insomma ci sono mille motivazioni in quel trofeo, in quella coppa. Dentro c’è proprio la tua vita, non c’è soltanto il gol».

Ciao Pablito.