Foto Gianluca Simoni

Antonello Venditti è patrimonio culturale di tutti, volente o nolente. Dovrebbe far parte dell’UNESCO. È qualcosa che tutta la penisola ha nel DNA. Anche quelli che storcono il naso nei confronti di una eccessiva ricerca del consenso – e da questo Antonello non è mai stato immune – conoscono a memoria almeno due o tre canzoni. È qualcosa di ben impresso nell’immaginario collettivo. È uno zio a cui si vuol bene, e a cui si perdonano anche le cadute di stile o le canzoni troppo ammiccanti o facilone.

Antonello Venditti sarà a Prato in Piazza Duomo sabato 4 settembre. A memoria d’uomo (mia) a Prato non ci ha mai suonato prima (ma posso sbagliarmi). Di sicuro venne al Festival delle Colline a Poggio a Caiano nel 1975, prima di diventare Il Venditti Nazionale, ma si tratta di diverse vite fa. La piazza è pressoché esaurita: segno che quando Antonello chiama, il pubblico risponde ancora. La versione è “unplugged”. Quindi, in acustico, che può voler dire con l’accompagnamento di pochi e fidati musicisti, ma anche da solo, con cappello d’ordinanza, occhiali da sole e pianoforte. E quest’ultimo è il Venditti migliore, quello privo di orpelli e di arrangiamenti. Quello che ti emoziona e ti fa cantare a squarciagola con lui. Qui di seguito una serie di canzoni, che a giudicare dalla scelta delle scalette degli ultimi tempi, abbiamo diviso in tre settori: quelle che probabilmente non ascolteremo, quelle che ci aspettiamo, quelle che purtroppo ci toccheranno.

Le canzoni che (molto probabilmente) non ascolteremo

Le tue mani su di me

Parto dal Venditti a me più caro. Una canzone d’amore o di non amore, interpretata magistralmente anche da Patty Pravo. Una relazione che non riesce a sfociare in qualcosa di più, e Antonello se ne rammarica. Nel mezzo, immagini meravigliose: “Una foglia stupida cade a caso sull’asfalto e se ne va, una fabbrica occupata sulle nuvole e un fucile che rimpiange Waterloo”.

Mio padre ha un buco in gola

Una canzone quasi “rinnegata”. Parla del difficile rapporto con una famiglia troppo presente, e il figlio che se ne vuole affrancare per spiccare il volo. “Mia madre è professoressa, o meglio una professoressa madre: m’ha dato sempre quattro anche se mi voleva bene. Mia nonna è una brava signora ma nonostante tutto è morta. Cucinava con troppo amore e mi faceva ingrassare.” Amarissima. Scomoda per il Venditti degli anni a venire.

Sora Rosa

Qui siamo agli inizi, quelli del Folkstudio, quelli condivisi con un giovanissimo Francesco De Gregori che ha le stesse ansie del nostro. Iniziano insieme, con un disco diviso a metà. Poi si separeranno, se le manderanno a dire (Si veda a questo proposito “Piano Bar” per De Gregori e “Francesco” per Venditti), si riappacificheranno (“Sono Antonello e questo è mio fratello bello”, canterà nel 2003 insieme al Principe). Ma all’inizio convivono. Sora Rosa è il grido amaro di un giovane colmo d’energie che non trova spazio in un paese popolato da arrivisti attaccati alla poltrona. La lingua è il vernacolo romano alla Giovanni Gioacchino Belli. Poche altre volte userà il romanesco in modo così espressionista. A suo modo un classico, fin dalle intenzioni.

Giulia

Un’altra storia d’amore complicata: una donna che vuole portare via la donna al nostro. Solo che lei, l’altra donna, è perfetta. Difficile competerci. Ha tutto quello che una donna – e anche un uomo – potrebbe volere. È bellissima, sensibile, intelligente. E l’unica cosa che il nostro, disperato, riesce a fare, è implorarla quasi impotente. Vorrei averla conosciuta, quella Giulia là.

Le canzoni che ci aspettiamo

Sotto il segno dei pesci

Il 1968 raccontato dieci anni dopo, con una struttura cinematografica. Una piazza – ancora vera, non virtuale – sullo sfondo, poi la camera si avvicina e si raccontano le storie dei protagonisti, con poche pennellate: Giovanni l’ingegnere che lavora in una radio, Marisa l’insoddisfatta che se ne va, il rock che passa lento sulle discussioni più grandi di loro, figli di una vecchia canzone, magari di quelle noiose e di protesta. Il pubblico che si fa privato. Struttura circolare, climax continuo. Raramente riuscirà a eguagliare questa perfezione.

Notte prima degli esami

Eccola là. La canzone per cui tutti quelli che hanno fatto la maturità dagli anni 80 in poi hanno pianto. Un rito di passaggio descritto per immagini ben impresse nella memoria. Il pianoforte sulla spalla, le bombe delle sei non fanno male, e soprattutto, ma come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati? (E come ha fatto Venditti a rendere cantabile una forzatura metrica così spudorata? Questa è grandezza. Poco da dire.). Una di quelle canzoni che non si discute, stai lì e la canti. E ti ci commuovi ancora.

Bomba o non bomba

Ancora gli anni ’70, ancora una struttura cinematografica. Le canzoni a episodi gli riuscivano bene. Qui è un viaggio da Milano a Roma, probabilmente un tour, con tutta una serie di personaggi più o meno singolari che segnano il viaggio. Sullo sfondo, gli anni di piombo. Ancora pubblico e privato che si intrecciano. Prima che il pubblico (inteso come istanza politica della collettività) sparisse completamente dal radar.

Ci vorrebbe un amico

Va bene hai vinto tu, e tutto il resto è vita. Maurizio Costanzo a parte, è una cosa che abbiamo passato tutti. E anche se eccede in semplicità, non possiamo non volergli bene.

Compagno di scuola

La prima delle canzoni “scolastiche”. Gli ultimi rigurgiti di integrità e un riflusso, sullo sfondo, che sta arrivando. I dubbi culturali (“ancora oggi io non so se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito”), ma anche quella che filava tutti meno che te. Quando ancora entrare in banca era socialmente un fallimento. Una fotografia impietosa di un mondo lontanissimo.

Le canzoni che (purtroppo) ci toccheranno

In questo mondo di ladri

Canzone premonitrice di una certa antipolitica e di un certo populismo. Gli va riconosciuto che è stato il primo, a cantare questo sentimento (siamo nel 1988). La canzone non va oltre il “sono tutti cattivi, noi siamo buoni, puoi venire con noi”. Però piace tanto.

Benvenuti in paradiso

Benvenuti in paradiso insieme a noi, non vogliamo più serpenti. Se questa vita morde, tu mordila di più. Se il mondo fosse un angolo di cielo rimangerei la mela del peccato. Così non vale. (E va be’.)

Alta Marea

La versione italiana di “Don’t dream it’s over” dei Crowded House. Tu sei dentro di me come l’alta marea. Si dice che sia stata scritta vicino all’Argentario, e l’autostrada deserta sia in realtà l’Aurelia. Una serie di banalità dette con estrema musicalità. Fa quasi rabbia.

Ricordati di me

Non è la peggiore di questo gruppo, fa parte di quelle che alla fine canti a squarciagola con lui, e va bene così.  Però sta qui perché quando canta “non c’è sesso senza amore” secondo me non ci crede nemmeno lui.