Ha battuto tutti sul tempo, Enrico Tordini, ci ha spedito il suo racconto (che proprio “racconto” non è, almeno non nel vero senso della parola, come vedrete) nemmeno un’ora dopo l’annuncio della nuova rubrica, e così eccoci alla vera inaugurazione di “Piesse”. Il suo “La processione” è una fredda cronaca di un qualcosa che conosciamo tutti bene (anche se l’autore apre con un laconico “Non so se vi è mai capitato”… in realtà sa benissimo che siamo tutti sulla stessa barca!): molto ironico, tagliente, sfrontato, al limite dell’offensivo per chi, come me, viene da un paesino in fondo non dissimile dal suo immaginario “Roccazzo”… ma comunque interessante e divertente. E in ogni caso i commenti li lasciamo a voi. Siamo o non siamo un salotto letterario virtuale? Dunque benvenuti a “Piesse”, e seguite l’esempio del Tordini: continuate a spedire!

La processione

Non so se vi è mai capitato, la domenica mattina, di imbattervi in uno di quelle dirette televisive che Rai e Mediaset ci propinano sulle italiche tradizioni et costumi in occasione di feste e sagre paesane, quando inviano troupe e conduttori in qualche borghetto isolato ed arroccato in cima ad una collina. La RAI annovera due gemelle rizzacazzo ed un nauseabondo ciccione il cui nome, per fortuna, adesso non mi sovviene, mentre il polo televisivo del nano bitumato utilizza un autentico pezzo da novanta, alias il guru dell’ovvio Davide Mengacci.

Le ricorrenze, normalmente, sono il Santo Patrono o la festa paesana, un giorno che ricorda un evento particolare, tipo il centoventiduesimo anniversario di quando la Beata Vergine dal Cuore Sanguinante e dal Ventricolo Occluso apparve sul monte al pastorello Roccazzo, un adolescente dedito al gioco e al vizio, che dopo tale mistica visione si mondò di ogni peccato e si rinchiuse in espiazione in un convento dove morì di tisi a ventidue anni, o altri similari e gioiosi anniversari.

La prima cosa che lo spettatore nota è il tono enfatico dei bravi presentatori, eccitati come se avessero appena fatto sei al superenalotto. Tutto è bello, ma che dico? meraviglioso, dalla natura ai monumenti come se, anziché trovarsi in qualche sperduta frazione del Molise o della Lucania, fossero al Taj-Mahal o alle Maldive. La banale chiesetta del diciottesimo secolo, ce ne saranno un milione lungo l’italiotico stivale, diventa un “mirabile, fulgido esempio di architettura neogotica-tardobizantina”, mentre una zoomata del bravo regista su due lande sassose e desolate che confinano con un bosco di castagno è presentata come “un incontaminato paesaggio naturale identico a come era due secoli fa e non toccato dalla civiltà”.

Forse, ti vien da pensare, sarà perché le persone civili stanno alla larga da simili posti.

Poi, una volta decantate le bellezze locali, si passa a presentare i notabili dell’ameno agglomerato, cominciando dal  sindaco e dal vicesindaco. Ti basta guardarli in faccia, quando vengono inquadrati in primo piano, e subito capisci con chi hai a che fare: guance grasse e rubizze, frutto di abbondanti libagioni, pance prominenti, occhi porcini soffocati dall’adipe, eloquio incerto, cadenza dialettale marcata, patetici tentativi di usare termini ricercati ed aulici con il triste risultato di cadere in orrendi strafalcioni grammaticali.

Miseri reietti dello spessore morale di un licaone affamato, sordidi rubagalline che non sono riusciti, a causa della loro non troppo aurea mediocritas, a spiccare il volo e finire a Roma, a fare i taglieggiatori in grande stile. Dispensano sorrisi alle telecamere ed alla folla plaudente, facce tristi di chi è abituato a subire angherie da generazioni e spera nel notabile di turno per avere il permessino per rialzare il vecchio porcile e farci un monolocale per la sorella nubile. Un feudalesimo moderno, vassalli e valvassori, valvassini e servi della gleba.

E poi il parroco. Immancabile. L’occhio lucido del bevitore, il portamento similbonario del potenziale pedofilo di campagna, una vita trascorsa tra una confessione della verginella inibita che si tocca sempre lì quando è sola,  e la moglie del benzinaio, che lo ha tradito per la settima volta ma che, per la settima volta, ha giurato di non farlo più. Una vita trascorsa in mezzo ai burini, e pensare che da giovane voleva fare il militare di carriera e girare il mondo, oppure l’avvocato, poi il buon Dio diversamente dispose. Sorride e dispensa saggi consigli, con la faccia di chi, per primo, non crede a ciò che dice. L’unico che ci crede è il conduttore, che continua a gioire ed a stupirsi come se fosse di fronte al Dalai Lama.

Esauriti i notabili, sempre squittendo e saltellando, il bravo presentatore si reca presso gli stand gastronomici: carni bianche e rosse, vini bianchi e rossi, oli dei locali uliveti, ortaggi di stagione e frutti del bosco, castagne, lamponi e funghi. Tutto buono e genuino, tutto cucinato con arte tramandata da generazioni, che “le cose come le facciamo buone qui non le fa nessuno”, erutta il sindaco con orgoglio, mentre insipide e timide donnette locali dalle guance rubiconde, agghindate in maniera stramba con vesti che il baldo conduttore assicura essere “bellissimi costumi tradizionali”, cercano, in un dialetto incomprensibile, di spiegarti cosa diavolo ci sia dentro quella pietanza. Tengono lo sguardo a terra, non sono abituate a parlare in pubblico… e tu cerchi inutilmente, basandoti sulla fonetica e sulla risonanza onomatopeica, di riuscire a captare il significato di qualche parola.

Tu, intanto, senti la sigaretta che ti brucia i polpastrelli: ti sei lasciato abbagliare da quell’orrido spettacolo, da quel trionfo del trash, come Ulisse con le sirene, e ti sei scordato di averla accesa. Pensi che dovresti uscire per una passeggiata, ma è troppo anche per te e rimani incollato al video.

Rimani incollato e scopri che intanto il baldo presentatore è andato dalle bellezze  -per così dire- locali, un gruppo di ragazzotte tarchiate infilate in strani vestiti tradizionali, che mostrano una dose industriale di peluria sopra il labbro superiore. Il corpo di ballo, dice il presentatore. Il corpo di ballo che si esibirà in una tarantella tradizionale musicata da un gruppo di giovani del luogo, degli ominidi irsuti, adolescenti di diciotto anni che ne dimostrano cinquantasei. E partono, al suono di tamburelli e strani strumenti a corda, un’aura di misticismo ed ormoni in esubero, laddove credenze pagane si mischiano al puzzo di sudore ed al testosterone.

Sindaco, vicesindaco ( che non ha ancora aperto bocca ) e parroco similpedofilo intanto continuano a sorridere. Per la mente ti si affastellano strani pensieri. Pensi, anzi: sei sicuro, che non può essere vero. Che un tale stato di abbruttimento non possa esistere in Italia, nel secondo decennio del terzo millennio. Che quello sia un film di Monicelli e ti aspetti, da un secondo all’altro, di vedere Gassman e Tognazzi, redivivi, uscir fuori con qualche gag.

Siamo all’epilogo, il piatto forte deve ancora arrivare. Stiamo per toccare lo Zenith. La processione!! L’evento per cui il paese vive. Nerboruti torelli locali, insieme a sdentati contadini con la pelle arrostita dal sole, onanisti di parrocchia e sfaccendati vari, portano la statua di gesso della Beata Vergine del Roccazzo di cui sopra. Il parroco li benedice e si porta in testa al corteo, seguito dal sindaco e da un sempre più immusonito vicesindaco. Dietro la statua pie donnette devote di nero vestite, senza tempo e senza età, partono con lo sguardo estasiato intonando inni religiosi, seguite da pulzelle in fregola e bigottame locale.

Il regista zooma come un forsennato, un bimbo piccolo fa ciao con la manina, il conduttore saltella come Jim Morrison nel deserto del Mojave quando era strafatto di peyote. I mostri sono tra noi. Nessuno li può fermare. Anche il telecomando non risponde più, la televisione prende vita autonoma, come in un libro di Stephen King.
Tu sei lì allibito e immobile, preda degli eventi.

Finchè tutto finisce. Ma domenica prossima, ti ammonisce Mengacci, saremo ancora in onda. Non mancate. E chi sei tu per dar contro a Mengacci?

Enrico Tordini