Giovedì 29 Maggio – Primavera Sound 2014 (Dìa 1)

L’impatto è bellissimo e disorientante. Ci sono fiumi di gente che si muovono ovunque. La macchina dell’organizzazione, alla quattordicesima edizione, è rodatissima e si vede.

L’hipster è nell’aria già densa di maria alle sei del pomeriggio. L’ingresso è disseminato di mercatini di magliette, dischi e stampe vintage. Le tende verdi dell’Heineken, rifugio dell’assetato, invece sono ovunque. Il main sponsor dell’evento ha infatti molto a cuore che nessuno rimanga a bocca asciutta. Per i più pigri ci sono invece i Mochilla Man. Al doppio del prezzo è la “cerveza” che viene da te.

Dopo aver preso confidenza con il Parc de Forum, ci muoviamo con molta aspettativa verso il Sony Stage, uno dei due palchi principali, per ascoltare i Midlake. Una delusione. Riescono ad emozionare il pubblico solamente quando il frontman urla nel microfono “Hola Barcellona”. Ce ne siamo andati al terzo pezzo. Fortuna che dietro il main stage c’è uno dei punti di ristoro principali. Si mangia di tutto: pizza, thai food, cibo cinese, empanadillas e un imprecisato menù catalano. Optiamo per l’hamburger atomico grigliato su una “parrilla” di venti metri.

Ci spostiamo verso il Ray-Ban stage dove hanno da poco iniziato gli Antibalas (antiproiettile) da Brooklyn, NY. Sono un gruppone che sarebbe riduttivo definire afrobeat. C’è un po’ di jazz, di funk e molta improvvisazione. Ottoni, percussioni, chitarre elettriche e tastiere rhodes. Loro si divertono, la gente si diverte e balla. Tirano un’ora secca ma avrebbero potuto andare avanti molto di più.

Tocca a St. Vincent, di nuovo al Sony Stage. Quando non si muove a scatti e passettini come un robot rendendo di fatto il suo concerto quasi una mini performance teatrale, s’inchioda a gambe divaricate sul palco. Capello bianco sparato in ogni direzione, chitarra in braccio e giubbino retro-futuristico. C’è voglia di sperimentare qui. Si percepisce l’aurea di David Byrne che non a caso l’ha scelta come sua pupilla. Ma i rischi presi sono commisurati al suo talento. Il sound è essenziale: batteria, un cupo tappeto elettronico e chitarre furiosamente distorte sul quale svetta la voce dolce e potente di Annie Erin Clark.

Quando si conclude la performance dell’artista di Tulsa – sdraiata a testa in giù e braccia aperte su un podio al centro del palco – c’è solo da girarsi e correre insieme a qualche migliaio di persone verso l’Heineken Stage dall’altro lato della spianata dove un Josh Homme impaziente ha già attaccato con il riff di “No One Knows”. I Queens Of The Stone Age pompano e pistonano ma non brillano. Sono svogliati e nonostante un pubblico caldissimo non raggiungono i livelli ai quali ci hanno abituato. (Riescono comunque a farci digerire l’hamburger atomico bloccato dai Midlake)

Nuovo giro di 180 gradi verso il Sony Stage. Gli Arcade Fire cominciano con Reflektor, un pezzo che in sette minuti contiene più climax di quello che alcune band hanno in tutta la loro discografia completa (vedi Midlake). I pezzi sono delle micro-opere pop, gioielli che ruotano su sé stessi e fanno del concerto della band di Win Butler e Régine Chassagne il migliore della giornata. Mettono sul palco tredici elementi. Lui, giacca improponibile, tiene la scena, si agita e si spende per due ore filate. Ma è lei la vera regina: canta e controcanta, suona di tutto: tastiere, batteria, Xilofono, percussioni, chitarre, fisarmonica, mandolino e perfino la ghironda. Concludono tra fuochi d’artificio e coriandoli.

Sull’Heneiken stage parte l’elettronica dei Disclosure. Ma noi siamo già troppo cotti per i fratelli Lawrence. C’infiliamo in un taxi e torniamo verso la Ciutat Vella. Domani è di nuovo festival.