Cominciò a piangere nel 2010, quando anche grazie a una sua uscita sballata con la complicità di Felipe Melo, che toccò la palla per ultimo per il la più clamorosa delle autoreti, il Brasile venne eliminato ai quarti dall’Olanda di Sneijder poi finalista, e per quattro anni non ha smesso più.

I brasiliani lo perdonarono, al ritorno in patria, con un caloroso abbraccio, ma il senso di colpa per Julio Cesar Soares Espindola era troppo forte. Ogni volta che rivedeva o pensava a quel momento era più forte di lui mettersi a piangere, che fosse a casa propria o davanti le telecamere di Piero Chiambretti, non ce la poteva fare, piangeva come un vitello e a nulla serviva ripensare ai momenti belli di una carriera fantastica che lo aveva consacrato tra i più forti portieri al mondo.

All’Inter si accorsero che quell’uscita sbagliata aveva minato quella sicurezza e personalità che a poco più di vent’anni, avevano convinto Roberto Mancini a lanciarlo titolare, mettendo in panca un monumento vivente come Francesco Toldo. I nerazzurri lo scaricarono in malo modo, lui eroe assoluto del Triplete, a favore dello sloveno Samir Handanovic dell’Udinese. Non la prese molto bene e nemmeno i tifosi, ma dopo le prima due partite ben giocate dal sostituto, tutti si scordarono di lui che, nel frattempo aveva imboccato la strada di una odissea calcistica e umana.

Si accasò al Queens Park Ranger ma l’esperienza fu un disastro: retrocessione e finito fuori nella stagione successiva per divergenze con la dirigenza in merito a vicende contrattuali, perdendo il treno dalla Nazionale. Per recuperare quella maglia, per non perdere l’appuntamento con il mondiale giocato in casa ha accettato l’inaccettabile, finire a giocare in Canada, nel Toronto, pur di dimostrare a Felipe Scolari di essere ancora in grado di difendere la porta della Seleçao.

Felipao gli ha dato fiducia a dispetto delle critiche (anche del sottoscritto) dopo le prime uscite in cui era apparso arrugginito e incerto. Julio Cesar ha continuato a crederci, piangendo ad ogni inizio partita durante l’inno nazionale e le cose hanno ripreso a funzionare. Quando il Brasile è finito ai rigori contro il Cile si è rimesso a piangere e con gli occhi rossi si è sistemato tra i pali. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che riuscisse a combinare qualcosa di buono e invece ha stregato i Cileni, parando due tiri, evitando al Brasile l’onta dell’umiliazione di una eliminazione agli ottavi, dalle conseguenze inimmaginabili.

Sì, Julio ce l’ha fatta: a cancellare lo spettro di quell’uscita contro l’Olanda, a pagare il debito con la Seleçao, a cancellare – si spera – per sempre quel dannato senso di colpa che gli stringeva il cuore e lo stomaco, ogni volta che ripensava a quella partita. Ma soprattutto ce l’ha fatta a dimostrare, ancora una volta, di essere lui il numero uno, forse il più forte portiere brasiliano di tutti i tempi, più del leggendario Gilmar, del simpatico Taffarel, del sopravvalutato Dida.
“Piango anche adesso ma queste sono lacrime di gioia ed emozione. Solo Dio e la mia famiglia sanno cosa ho passato” ha commentato, tra le lacrime, ieri sera nell’immediato dopo partita.

Bravo Julio, ma dai retta, ora smettila di piangere, non ne hai più bisogno.

P.S.: negli altri ottavi la Colombia ha vinto contro l’Uruguay, in maniera tanto netta, che non ci sembra il caso di dilungarsi per non riaprire ferite ancora troppo fresche.