Francesco Nuti

In un sabato pomeriggio passato a scartabellare pile di vinili in un mercatino in quel di Scandicci, mi imbatto in questo disco qua. Tutto nero, una foto (anzi due) in copertina, un nome: Francesco Nuti. Il titolo del disco non è nemmeno in copertina: è nel retro, insieme alla lista dei brani (lato a e lato b), ad una sterile lista dei musicisti e pochi altri crediti. Il disco si chiama “Un giorno come tanti altri”. Un disco che non avevo mai visto, e che attira la mia attenzione.

francesco nuti discoDi Francesco Nuti credevo che esistessero solo due dischi, quel “Tutte le canzoni di Francesco Nuti” che raccoglie tutte le canzoni dai film degli anni 80-90, e quello “Starnuti” del 2006 che in qualche modo ne completa la raccolta. Salvo rare eccezioni che vedremo, sono comunque canzoni dagli anni 80 in poi, sempre legate a contesti cinematografici. Nemmeno l’autobiografia o il documentario sulla sua vita ne parlano, di questo disco tutto nero. Ed è un vero peccato, perché si tratta di un’opera niente affatto leggera o superficiale.

Innanzitutto, l’anno di uscita. Sul disco non c’è scritto. Wikipedia lo data 1979. E’ sicuramente in errore: nel 1979 Nuti faceva già parte dei Giancattivi e aveva sospeso ogni sua attività solista e musicale. Il disco è riconducibile a quando faceva spettacoli di cabaret (o di teatro-canzone) in solitaria, di stanza al Teatro della Guido Monaco di Via San Vincenzo. Spettacoli come “Staccia buratta l’Italia l’è un po’ matta” o “Un pollo d’allevamento”, da cui questo disco è tratto. Quindi, siamo nel 1977 o nel 1978. Dai pochi crediti che lo compongono, sappiamo che è stato registrato al Musicalcentro dei fratelli Cianchi (che negli anni 70, nel retro del negozio di Via del Serraglio, avevano sia uno studio di registrazione che uno studio televisivo) e che il fratello Giovanni Nuti firma tutte le musiche. I testi sono firmati da tale Giampaolo Gradi, pur essendo palesemente tutta farina del sacco di Francesco. Anche qui, a giocare a fare il detective, si potrebbe supporre che il giovane Nuti non fosse iscritto alla SIAE e avesse dato le canzoni in tutela a un amico per poterle registrare. Giochini del genere venivano fatti spesso: l’esame SIAE costava caro e a volte ci si rimbalzava pure.

Il disco, dicevo, è parte di uno spettacolo teatrale. E infatti, di canzoni da teatro si tratta. Nuti aveva chiara la lezione di Giorgio Gaber, e del Nuti comico a venire c’è solo una piccola parte (Forse solo “Il birignao”, sorta di samba pratese che però narra, attraverso le assonanze tra dialetto pratese e brasiliano, la storia di un omicidio consumato durante una partita del Prato). Il disco è figlio più di una certa canzone d’autore degli anni settanta, tra politico e sociale, e la cifra che lo pervade in assoluto è una malinconia di fondo per una società che sta in qualche modo degenerando e rovinando se stessa. La perla assoluta del disco è quella “Batte la spola” (che poi ricanterà anche nel disco del 2006), malinconico ritratto di una Prato d’altri tempi, di orditoi e telai che non si fermano mai, e di gente sempre più sorda, sempre più monca e di una morte amara, se la vita “l’hai vissuta solo a metà”. E poi “Quadro quotidiano”, in cui in una sorta di marcetta passa in rassegna i vizi di “questa civiltà della nostra società che rapina la metà”, e ancora “I dementi”, disanima di una razza che si stava sempre più imponendo sugli intellettuali del tempo, voi “che ingoiate il vostro cervello in cambio di un sogno venduto, che comprate la vostra condanna in cambio della libertà”. Parole pesanti come macigni, su temi che magari Nuti più tardi non abbandonerà, ma sicuramente tratterà con maggiore leggerezza. Tra le figure cantate nel disco è anche posto per “Gesù di Nazareth”, un Gesù distante da quello che Zeffirelli portava in televisione in quegli anni e più immerso nel sociale, un Gesù più “compagno”. L’altra perla del disco, anche questa pervasa di disincantata malinconia, è quella che apre il disco e che narra quel giorno come tanti altri “di vita vissuta così mediocremente”. La solita vita, appunto. Quella da cui Francesco Nuti fuggirà di lì a poco, affermandosi come attore, come regista, come autore.

Il disco fu stampato in mille copie (pochissime, per l’epoca) e credo distribuito solo a Prato o negli spettacoli teatrali. Un disco magari acerbo rispetto ad altre voci dell’epoca, ma con una sua poesia e una sua dignità, anche considerando il fatto che Nuti aveva poco più di vent’anni. Per quanto mi riguarda, una gran bella scoperta. Un vero peccato che non sia mai più stato ristampato nella sua interezza.