Siamo ormai giunti alla seconda settimana del progetto “Cittadini del mondo – Passaggio in India 2016”.

Il tempo passa in fretta, il gruppo si unisce di giorno in giorno in modo sorprendente, arricchendosi delle diversità che caratterizzano vivacemente i suoi componenti: tutti noi lentamente, quasi senza accorgercene, ci stiamo abituando all’umidità e al caldo e lo spirito del “fare-assieme” si rafforza di esperienza in esperienza.

I lavori al settlement procedono senza sosta: chi strofina e gratta via la muffa, il guano di cornacchia e residui di vecchie cornici appiccicati alle pareti, sembrando sbriciolare a poco a poco anche la disumanità di questo luogo-non luogo; chi imbianca le pareti, illuminando di un bianco splendente il grigiore e la miseria degli edifici, chi sfoggia le proprie doti artistiche con colori e disegni, e chi, infine, si occupa di amalgamare le fantasie creative individuali per rendere omogeneo il quadro d’insieme, in un unico grande dipinto.

Alcune persone “internate” nel settlement partecipano con entusiasmo alle nostre attività, ma la gran parte di loro, purtroppo, continua a dormire o a vivere nell’inerzia abituale, in uno stato di pigrizia costante che sembra vincere le nostre buone intenzioni più accese; nonostante l’impegno, il sudore e la fatica nel cercare di trasmettere una vitalità che favorisca un processo fecondo di rigenerazione e miglioramento dello stato di salute e nonostante la nostra ‘non resa’, l’inclusione degli ospiti è davvero impresa ardua: una sorta di immobilità pare impedire alle loro membra di muoversi.

Negli scorsi giorni, il gruppo ha vissuto una grande quantità di esperienze molto intense. Non poteva, tra queste, mancare l’annuale partita di “pallastrada” con gli ospiti del settlement.
L’idea di gioco ripresa dal romanzo “La compagnia dei celestini” di Stefano Benni è semplice. Nella pallastrada le uniche regole sono stabilite, via via, dal “Gran Bastardo” (l’arbitro), il quale decide che tipo di palla deve essere usata, se vanno utilizzate le mani o i piedi, e può stabilire qualsiasi altra cosa gli venga in mente, come, ad esempio, mettersi lui stesso a giocare liberamente con una delle squadre.

Nonostante gli inevitabili infortuni, il divertimento è stato grande e il coinvolgimento dei giocatori fortissimo. Grazie alla disponibilità di un microfono si è potuto godere di una divertentissima telecronaca della partita ad opera di Sabra, e in seguito  i più intraprendenti si sono esibiti con canti indiani e melodie italiane: la desolazione e il silenzio che troneggiano pesantemente nell’ampio cortile del “manicomio” hanno lasciato il posto a un’atmosfera leggera, ricca di risate, corse, spirito di squadra e di competizione, scontri di corpi, di occhi vivaci e di mani allegre che scandivano il ritmo della musica.

Senza certo dimenticare, comunque, le persone chiuse a chiave nelle stanze, con un lucchetto pesante, a cui è assolutamente proibito uscire perché considerate aggressive o dannose per se stesse e per l’ambiente circostante: un’autentica reclusione di innocenti legalizzata.

Rigenerante, purificante, ma talvolta molto frustrante, è stato il tempo trascorso a Kolayad, nella giungla. Un viaggio di tre giorni che ha dato l’opportunità a tutti noi di vivere una tipica esperienza indiana, colma di inconvenienti che hanno richiesto tanta, tanta pazienza da parte di ognuno. All’andata, attraverso le porte spalancate del treno, abbiamo potuto riempire occhi e anima coi colori delle palme e del paesaggio circostante, rigoglioso, bellissimo e, a ogni fermata, abbiamo nutrito il nostro appetito, con piccanti e gustosi stuzzichini, tra cui samosa e noccioline.
La prima giornata a Kolayad prevedeva una visita al villaggio di Adivasi nella giungla: superstiti degli antichi abitanti di quel territorio, di cui sono stati espropriati e in seguito confinati nella giungla; un tempo erano considerati “fuori casta” e non potevano avere contatti con gli indiani che abitano i principali villaggi.

Primo contrattempo: tale visita non è andata a buon fine perché siamo stati fermati dalle guardie forestali inizialmente senza un’apparente ragione; soltanto dopo qualche ora, abbiamo saputo che nella giungla si nascondono guerriglieri maoisti che avrebbero potuto creare dei problemi.

Successivamente, la visita all’istituto psichiatrico di Kolayad ha suscitato grande choc e sconforto. Nella struttura sono recluse 300 persone circa, in condizioni assai simili a quelle dei nostri vecchi manicomi. Fa una grande impressione vedere tale struttura in mezzo alla giungla. Un solo reparto consente ai pazienti di entrare e uscire liberamente; gli altri sono tutti sotto chiave. Uno di loro si è esibito in un canto indiano, un altro ci ha mostrato orgoglioso i propri disegni, un altro ancora si è reso protagonista di esercizi da saltimbanco, essendo stato un circense, e questo ci ha imbarazzato particolarmente perché sembravamo spettatori in visita di uno zoo umano, pubblico terribile  e sfrontato a invadere le vite-non vite degli astanti.

Ma l’India è anche questo.

Quando in seguito abbiamo avuto l’opportunità di riflettere sul nostro vissuto di quei momenti durante una riunione di gruppo (il nostro ‘girotondo’ di emozioni), abbiamo condiviso le nostre impressioni, i nostri stati d’animo e sono emersi sentimenti comuni di impotenza e di solitudine di fronte a tanto soffrire: è stato come percepire tutta la vulnerabilità dell’essere umano e, insieme, tutta la violenza di cui è capace nei confronti dei suoi simili.

Inoltre, la visita alla cava degli “spaccapietre” ha suscitato incredulità, rabbia, disagio: uomini e donne lavorano in condizioni per noi impensabili; un lavoro estenuante, massacrante, svolto per meno di tre euro al giorno, sotto il sole cocente, fra rocce, con inadeguati, piccoli martelli di ferro, sassi ridotti in varia misura dal sudore di corpi magrissimi e polvere e terra nei polmoni invece che aria.

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Ritornando verso Cochin, al nostro Rosary Convent, ci siamo persi nell’insensatezza del tempo indiano: un viaggio di dieci ore per percorrere soltanto 350 chilometri, nella frenesia caotica delle strade, fra immobilità costrittiva e ansiogena all’interno del pullman, la corsa incessante di tutti, fuori dal finestrino e il movimento interiore dei nostri animi non avvezzi all’attesa, alla pazienza. E’ stato come vivere un dilatarsi del tempo che per noi occidentali diventa un’esperienza infernale e sconvolgente. Curve, macchine impazzite, biciclette e motorini ovunque, clacson inarrestabili ed elefanti bellissimi hanno accompagnato la nostra strada, alimentando smania e insofferenza: se è vero che l’arte della pazienza non s’impara in un giorno, è pur vero che l’essere umano ha uno spiccato spirito di adattabilità e dunque tentando di approfittare del tempo a disposizione, ci siamo goduti la compagnia reciproca fino alla sospirata destinazione.

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Tornati a Cochin, siamo stati ospiti al “Toscana Village”, un piccolo villaggio di trenta famiglie costruito nel 2003 grazie ad una raccolta di fondi promossa dai club Lions della Toscana. Una piccola isola felice, in cui solidarietà, fratellanza, condivisione sembrano i principi della comunità: un modello che sarebbe opportuno importare a casa nostra, dove spesso un generale senso di estraneità e un atteggiamento di chiusura non fanno altro che alimentare le individuali solitudini.

Siamo stati accolti con un lungo discorso di benvenuto da Anthony, il capo villaggio, seguito da danze e canti dei bambini e dei più giovani. Abbiamo portato pannelli di faesite, colori e pennelli per dipingere tutti insieme. La partecipazione è stata estremamente vivace da parte di tutti e abbiamo fraternizzato subito con la comunità, superando l’iniziale formalità facilmente ed altrettanto le barriere linguistiche. Con la pittura, in particolare, abbiamo coinvolto la maggior parte dei ragazzi ed insieme abbiamo dato vita  a quattro pannelli coloratissimi in cui il principio cardine è stato rigorosamente quello di liberamente esprimersi.
Il risultato è stato notevole.

Il nostro risveglio è accompagnato dai versi gracchianti di cornacchie  e corvi reali e dal canto dolcissimo delle suore che pregano tra le note morbide di una pianola…

L’India è proprio questo: una miscellanea di contrasti, di estremità apparentemente inconciliabili. Già da qualche giorno ormai l’aria calda non è più tanto insopportabile né il caos del traffico né l’assurdità dei clacson furiosi alla guida né gli odori tanto intensi: una inaspettata familiarità con tutto ciò che ci circonda rende ‘nostra’ questa quotidianità scandita da ritmi, suoni, fatica, riposo, pranzi insieme, appuntamenti, lavori di vario genere, mansioni domestiche, giochi, girotondi di emozioni, spostamenti, scritture collettive, partite, bucato nei secchi, docce col ciotolino  e molto molto altro. Tutto ciò è la nostra giornata e la pienezza è tale, un vero e proprio rapimento indiano, che questo sembra sia diventato il  nostro quotidiano nel quale scopriamo nuove risorse di noi stessi: negli imprevisti, nelle disavventure, nella fatica fisica ed emotiva, ciascuno ha trovato nuova forza e la sensazione è scoprire ancora nuove sfumature in noi, conoscersi di più e sentire che siamo molto più di quel che pensiamo, molto più di come spesso ci percepiamo, nella fretta e disattenzione e paura e solitudine dei nostri mondi.

E’ un privilegio e una impagabile occasione di crescita essere qui, promuovendo la nostra salute.

Alisa Ventura e Serena Magnini