“I tappeti oggi, purtroppo, non si vendono quasi più”, mi dice Graziella Giorgi, proprietaria di Teheran Farsh—farsh significa appunto tappeto. Sull’insegna del negozio di via Siena, qui dal 1988, si legge semplicemente Tappeti Persiani. La signora Giorgi attribuisce la crisi del settore ad un fattore generazionale ma lamenta anche la perdita culturale del discernimento di ciò che è bello. “Non c’è più amore per la bellezza”.

Al Soccorso, tutti conoscono la famiglia Karimkhan, il marito di Graziella, Ahmad, i figli Karim, laureato in economia e commercio che aiuta i suoi al negozio, e Andrea, architetto. Ma forse pochi sanno la loro storia. Comincia con un amore sbocciato a Firenze nel 1969 tra uno studente di architettura persiano e un’insegnante di italiano istriana. Allora la città era tutto un fermento. “C’erano ragazzi di 16 anni in piazza con il megafono… era bellissimo”, ricorda il signor Karimkhan. Ahmad e Graziella erano giovani e già entrambi innamorati dell’Italia ma anche fortemente legati alla propria terra di origine. Non a caso Ahmad, unico maschio con tre sorelle, deciderà di tornare in Persia nel 1974, Graziella avrà due bambini in quegli anni, eppure andrà a partorire “vicino alla mamma” a Pola e tornerà tutte le estati con i figli (e l’Istria nel frattempo diventerà Croazia). Poi, nel 1979 scoppia la rivoluzione in Iran. Sono anni difficili. Karim ricorda il coprifuoco la sera (“non si poteva uscire”). “Andavo ad una scuola maschile”, continua. Prima dell’inizio delle lezioni, tutti i bambini dovevano pregare in cortile.

Nel 1982 tornano in Italia, a Chiusi. Graziella si iscrive a Pedagogia perché per poter restare nel Paese doveva avere un lavoro o studiare; lei, pur essendo nata italiana nel 1945, due anni dopo con l’arrivo di Tito aveva perso la cittadinanza. Da agente di commercio, Ahmad comincia a collaborare con antiquari che fanno mostre in giro per l’Italia. È bravo, ci sa fare. Arreda le case di politici e di gente famosa. Ma con i soldi arrivano anche i problemi. Nel 1986 subisce una rapina a Magliano Sabina mentre sta rientrando a casa dopo una mostra. Fingendosi la guardia di finanza, tre rapinatori fermano il furgone di Ahmad e portano via tutto.

Qualche tempo dopo, la famiglia Karimkhan si trasferisce al Soccorso, quartiere scelto per via della posizione strategica e dei prezzi più abbordabili rispetto a Firenze. Gli anni Novanta sono anni buoni per la vendita dei tappeti (allora a Prato c’erano ben 15 negozi, adesso ne sono rimasti solo 5), ma attorno al 2002 le vendite cominciano a scendere senza più riprendersi. Nonostante la crisi, Teheran Farsh continua a svolgere un’attività a 360 gradi sulla gestione dei tappeti: vendita, restauro, lavaggio, recupero dei danni naturali e artificiali nei manufatti. E in ciò che fanno Graziella e Ahmad c’è davvero amore per le cose belle.

Per spiegarmi come siano entrati nel commercio di tappeti, la signora Giorgi mi parla della cultura persiana e di come sia cambiata. “Dopo la rivoluzione tutti diventarono annodatori [in Persia], anche chi non sapeva farlo”. Col tempo si è andata persa la gloriosa tradizione artigiana del tappeto persiano. Per far fronte ai problemi economici del paese, si è assistito all’industrializzazione del settore.

“Ero curioso”, comincia Ahmad. “E avevo la volontà. Se lavoravano, non parlavo. Guardavo”. Ahmad parla e talvolta mi è difficile seguire la sequenza temporale del suo racconto ma sembra divertirsi molto con gli aneddoti, come quello sul metodo di lavoro che si è inventato per riparare i buchi dei tappeti, il cosiddetto “telaio francese”. “Un giorno mi chiamano da Roma e mi chiedono, ma come funziona questo telaio francese?”. Di fatto, consisteva soltanto nel mettere un pezzo di cartone sotto. “Ma io l’avevo chiamato il ‘telaio francese!”, Ridacchia.

Anche il Soccorso è cambiato nel tempo, ma la famiglia Karimkhan è rimasta ad abitare qui e così il negozio. Come altri, si sono fortemente opposti al viadotto che sarebbe passato proprio davanti al loro appartamento. Graziella non è contenta della direzione presa dal quartiere. Vorrebbe che ci fossero più regole, specie per gli esercenti. “Io ho dovuto fare l’esame (il REC) per aprire il negozio, ed era giusto”, dice. “Un tempo occorreva essere cittadini italiani, si pagava una tassa sull’insegna… Adesso tengono aperto quando vogliono!”. La signora Giorgi ritiene anche che per acquisire diritti di cittadinanza sia necessario conoscere bene la cultura del paese di accoglienza ed è quindi favorevole allo ius culturae piuttosto che allo ius soli. Quanto alla vita al Soccorso, rimpiange il tempo in cui il mercoledì sera via Carlo Marx veniva chiusa, aprivano tutti i negozi e la storica gelateria Il Morino organizzava i balli. Adesso le botteghe di una volta non ci sono più e non le piace che la gente vada in giro “in pigiama e ciabatte”. Karim non la pensa proprio così. “Lui aiuta tutti”, a detta del padre. Ma Karim precisa, “Basta non mettere l’usanza. Altrimenti le persone se ne approfittano”. Gliel’ha insegnato anni fa un amico italiano questa cosa dell’usanza e ben si coniuga al senso del rispetto per gli altri e ciò che ci circonda, fondamentale per lui e per la cultura iraniana. “Proprio stamani avevano abbandonato un materasso qui sulla siepe”, lamenta. “Ecco, se vivi in questo quartiere non m’interessa da dove vieni, gli devi portare rispetto”. Lo stesso rispetto (ma mi verrebbe più di chiamarlo amore) che porta il padre Ahmad, che fa anche il giardiniere, prendendosi cura della siepe e delle piante sul marciapiede di fronte al negozio e al Bar Sam, di fatto di proprietà del palazzo sovrastante. “Tutto a gratis”, precisa la moglie. “Semi e piante vengono portati dai vicini”.

Karim crede che la madre si faccia un po’ troppo manipolare. “Certo, esiste del degrado nel quartiere (…) ma la mamma guarda troppo la televisione”. dice. Lui, invece, la sera si fa i suoi “diecimila passi” e gira per il quartiere. Va ai giardini e ci sono le famiglie rumene, bengalesi, pakistane. “Non li vedi gli italiani. Ormai non solo il quartiere, ma tutta la città, è multietnica. È un dato di fatto”, ribadisce.

Infine, non mi sorprende scoprire che nessuno in famiglia sia religioso. “Solo prega per euro”, scherza Ahmad. La religione in casa Karimkhan è una questione di coscienza più che di rituali o regole. Se la signora Giorgi dice di essere un tipo razionale, a cui “piace ragionare sulle cose”, il marito è sempre stato molto impulsivo. “Io sono pazzo”, ripete Ahmad. Mi guarda con quel suo sguardo magnetico, che ha tramandato ai figli. Non mi spiega però in che senso. Ci pensa il figlio, scuotendo la testa e ridacchiando. “Mio padre è il tipo che se lo chiamano alle 11 di sera e gli dicono ‘ci si è allagata la casa, abbiamo un tappeto da salvare,’ mi dice ‘Karim, andiamo!’ Noi saltiamo in macchina e andiamo a Viareggio o a Siena a prenderlo”.


Il progetto “La città continua“, elaborato da da CUT Circuito Urbano Temporaneo, Ricilclidea e dal Servizio politiche giovanili del Comune di Prato è finanziato dalla Regione Toscana sul DD relativo agli interventi sulla sicurezza urbana integrata. Tutti gli altri estratti di “Soccorso Storico“.