Sul bancone dell’Ali Center, c’è un barattolo destinato alla raccolta fondi per il centro di preghiera. Me ne accorgo solo mentre sto uscendo dopo aver chiacchierato con Ali Basharat, 34 anni, pakistano. Assieme al socio Qassim Ali, Basharat gestisce il negozio di Money Transfer su via Torino, nel cuore del Soccorso.

Ali è un giovane uomo dallo sguardo vispo e dal sorriso accogliente. Mi racconta che ha studiato in Inghilterra, a Manchester, Business Management; poi è tornato in Pakistan. Settimo figlio di una famiglia composta da padre (operaio adesso in pensione), madre (casalinga), quattro sorelle e quattro fratelli, Ali ha lavorato alla raccolta delle pesche in Calabria (“ma era durissimo”). È venuto a Prato dove aveva degli amici e la possibilità di aprire un negozio. L’imprenditoria pakistana è infatti in crescita nell’area pratese, secondo il più recente rapporto dell’IRIS. Come la stragrande maggioranza dei pakistani, Ali è musulmano e frequenta regolarmente la moschea del Soccorso.

Entro nel centro di preghiera su via Ferrara, ma non trovo nessuno. Primadell’arrivo di Ali a Prato, la moschea fu sotto i riflettori dei media locali per via dell’espulsione del pakistano, residente a Firenze, Mahomood Khan Zia Agaal, che per un periodo ne era stato l’imam. L’uomo, appartenente al movimento islamico dei Tagbligh Eddawa, era stato allontanato per motivi legati al terrorismo internazionale. I frequentatori del centro di preghiera avevano immediatamente ripudiato il fondamentalismo, come riporta TV Prato. Chiedo a Ali se conosca l’imam di adesso, ma scuote la testa. Al negozio, Ali e Qassim aiutano i clienti nell’acquisto di biglietti aerei per il Senegal, la Romania il Marocco, Il Pakistan, “per tutto il mondo”, ma soprattuttovendono schede telefoniche internazionali ed effettuano transazioni di denaro da Prato verso i tanti angoli del mondo che sono rappresentati qua al Soccorso. Ali ha intenzione di portare la famiglia in Italia. Si è sposato lo scorso anno ed è tornato ad agosto in Pakistan—aveva dovuto rimandare il viaggio a maggio per via del Covid 19. Mi dice che nel suo Paese non ci sono molti casi di coronavirus—controllo: in effetti, su oltre duecentomila abitanti i casi sono circa 320,000 con 6,621 decessi.

Anche Ali Hamza, il kebabbaro di via Torino, ha moglie e due figli in Pakistan. Proviene da Gujrat nel Punjab e da tempo vuole portare la famiglia a Prato. A me il döner kebab di Ali sembra ottimo, e la prossima volta mi prometto di assaggiare il seekh kebab, tipico indo-pakistano, o uno dei tanti hamburger e panini che si trovano sul menù. Mi faccio preparare per i bambini un vassoio di deliziosi dolci tipici della regione indiana: il barfì al pistacchio, la patissa (o soan papadi) con il cardamomo, entrambi fatti con la farina di ceci (o besan), i gulab jamun alla crema, fritti nel burro ghi a bassa temperatura e vari tipi di halwah, (dall’arabo “helw” che significa “dolce”), la cui preparazione richiede un’importante quantità di burro e soprattutto mescolare a lungo il semolino avendo cura di non farlo attaccare.

Hali Hamza – Foto Simone Ridi

Una passeggiata tra i palazzoni del Soccorso rivela il multiculturalismo odierno del quartiere: parrucchieri e alimentari cinesi e pakistani, macellerie islamiche, un bar gestito da albanesi. Ma la più visibile e recente è proprio la presenza dei pakistani. A dicembre 2019 erano 2.090 i residenti provenienti dal Pakistan, secondo l’Ufficio Statistiche del Comune di Prato, concentrati nelle aree Strozzi-Montalese, Centro antico e Valentini- Repubblica, ma soprattutto nel quartiere del Soccorso. Oltre la declassata, ci sono infatti le tintorie dove lavorano tanti uomini pakistani; poco lontano, il Macrolotto 2 e l’Osmannoro, il Soccorso resta una zona strategica per gli operai dell’industria e in particolare della logistica.

Se ne sono resi conto anche i Si Cobas che all’inizio del 2018 hanno aperto gli uffici del sindacato di Prato e Firenze nel quartiere—prima in via Milano e poi in via Ferrara. Su questa via negli anni Settanta, c’era la sede del Manifesto, come mi ricorda Silvana Barni, storica bibliotecaria della Lazzeriniana. Un luogo di resistenza, verrebbe da dire. Oggi, il proletariato che si rivolta a Prato parla urdu.

Non sa darmi un numero preciso la sindacalista Si Cobas Sarah Caudiero, ma degli oltre 400 iscritti, la stragrande maggioranza sono stranieri e moltissimi, di fatto, pakistani.

Sarah Caudiero – Sì Cobas – Foto Simone Ridi


Parlo con Tanveer Idbal, che vive nel quartiere oramai da sette anni. Mi aiuta con l’italiano Mohsin Riaz, anche lui iscritto ai Si Cobas, e operai presso il Panificio Toscano. (È Moshir che m’informa che esistono ben 6-7 squadre di cricket a Prato.)

Tanveer lavora nella limitrofa Tintoria Fada. Tanveer è stato tra coloro che hanno portato avanti lo sciopero nel maggio del 2019 assieme ad un’altra trentina di lavoratori pakistani. L’imprenditore cinese Yu Zhang detto Franco ha ceduto dopo pochi giorni alle richieste dei lavoratori e adesso tutti i dipendenti hanno un contratto a otto ore e le ferie pagate. Ma questo perché la rivolta contro lo sfruttamento era già cominciata in un’altra tintoria là vicino. È stato proprio grazie ai legami della comunità e delle famiglie pakistane che i Si Cobas, un piccolo sindacato nazionale attivo per lo più del settore della logistica, sono arrivati ad incontrare i lavoratori del tessile, racconta Caudiero. Da lì hanno scoperto le condizioni di sfruttamento in tante fabbriche del distretto: persone, in genere straniere, che lavoravano dodici ore sette giorni su sette.

“Esistevano un certo numero di lavoratori a nero e altri che lavoravano con contratti stagionali a quattro ore e che nei fatti lavoravano molte di più”, dice la giovane sindacalista dei Si Cobas. “L’obiettivo era ottenere le otto ore giornaliere”. Per questo, nella primavera del 2019, i lavoratori pakistani della Tintoria DL hanno fatto sciopero ad oltranza per due settimane. “Si mangiava insieme, si parlava”, racconta Caudiero. “Per dei lavoratori erano le prime ferie dopo quattro anni di lavoro continuato”. Lo sciopero è diventato così “un modo per liberare il tempo con delle forme nuove”, continua. Sarah Caudiero e il collega Luca Toscano sono stati arrestati. Il giorno successivo, sono tornati davanti alla tintoria e il proprietario ha acconsentito a sedersi ad un tavolo. Un’esperienza entusiasmante a detta della sindacalista, che attribuisce la forza di questi lavoratori alla “coesione data dalle comuni condizioni di sfruttamento”. Come entusiasmante è stata la manifestazione di gennaio di quest’anno contro i decreti Salvini e le multe agli operai della Tintoria Superlativa, organizzata proprio per rivendicare il diritto allo sciopero. Manifestazione a cui hanno partecipato quasi mille persone (tra cui la sottoscritta) e che ha portato le istanze dei lavoratori fino al cuore della città, in piazza del Comune, sebbene fosse stata negata l’autorizzazione.

I pakistani sono considerati “come stakanovisti dagli italiani, persone che stanno zitte e non rompono le scatole, che non si lamentano”; per Caudiero, non c’è niente di speciale nella comunità pakistana di per sé. “La cosa speciale è provare l’ebbrezza di fare delle cose e vedere che ci si può fare; questa qui è la magia”. A seguito dei primi successi, gli iscritti al sindacato sono cresciuti. “C’erano tante persone che si ammassavano davanti all’ufficetto di via Milano”, dice Caudiero. Era costretti ad aspettare fuori sul marciapiede.” Per questo, nel febbraio 2020 i Si Cobas si sono spostati nell’attuale sede di via Ferrara, uno spazio più grande che vuole essere “un punto di riferimento” per i lavoratori. Non solo un ufficio quindi, ma anche “un luogo di incontro e di socialità”.

Lo è per tanti uomini soli come Tanveer Idbal, originario del Punjab, dove ha una moglie e una figlia di 16 anni. Idbal si trova bene al Soccorso. “Ci sono tanti miei paesani e poi c’è la moschea per pregare, il barbiere (Ahmed o Abbas), un paio di alimentari dove può trovare i prodotti pakistani. Una vera e propria comunità. Durante il lockdown, i lavoratori Si Cobas hanno raccolto donazioni e comprato viveri per coloro che avevano bisogno. La distribuzione avveniva due volte a settimana. L’hanno chiamato Soccorso Attivo. L’emergenza coronavirus ha quantomeno rallentato i progetti di ampliare lo spettro delle attività presso la sede dei Si Cobas. Certo, le riunioni (come gli scioperi e i picchetti) sono riprese perché esistono nuove emergenze, situazioni lavorative e sanitarie aggravate dal COVID, e al contempo rallentate dai continui screening nella logistica.

Negli ultimi anni, sono aumentate le acquisizioni di cittadinanza tra i pakistani, come si legge l’ultimo rapporto dell’IRIS (2015), anche in virtù di un accordo bilaterale che dal 2010 consente ai cittadini pakistani di non rinunciare alla propria cittadinanza nel momento in cui prendono quella italiana.

Ma tanti pakistani sono ancora oggi come i due Ali e Tanveer: uomini soli in attesa di migliorare la propria situazione economica e così abitativa, in modo da poter far venire in Italia la famiglia.

Anche per questo, “[l]a sindacalizzazione dei lavoratori stranieri è importante”, dice Caudiero. “Come penso debba esserla quella dei lavoratori italiani che purtroppo oggi (…) sempre meno si immaginano di poter lottare sul posto di lavoro e questo è un problema (…)”.

Per i migranti, spesso sfruttati anche per ignoranza di norme locali e lingua, si tratta di “un’opportunità” per poter incontrare altri lavoratori e così diffondere anche al resto della comunità la conoscenza dei propri diritti. Per Sarah, “il liberarsi dalla paura e dalla sensazione di essere indifeso passa dall’agire collettivo, dall’esser insieme, lottare insieme, aiutarsi.” Come non darle ragione.


Il progetto “La città continua“, elaborato da da CUT Circuito Urbano Temporaneo, Ricilclidea e dal Servizio politiche giovanili del Comune di Prato è finanziato dalla Regione Toscana sul DD relativo agli interventi sulla sicurezza urbana integrata. Tutti gli altri estratti di “Soccorso Storico“.