marco ravaioli

Marco Ravaioli è uno dei fondatori del Centro Lgbtqia+ di Prato, inaugurato lo scorso mese di ottobre in via Santa Trinita. Attivo da sempre nel movimento fiorentino, da una decina d’anni si è trasferito a Prato dove ha contribuito alla crescita del movimento locale e all’apertura della prima sede arcobaleno.

È lui il primo ospite di “Dialoghi sui generi”, la rubrica con cui cerchiamo di conoscere meglio gli attivisti Lgbt di Prato. Ravaioli ci racconta come è cresciuto il movimento a Prato e quali sono le differenze tra la comunità Lgbt fiorentina e pratese.

Nome e cognome?
«Marco Ravaioli».

Ti identifichi come?
«Uomo cisgender gay».

Quanti anni hai?
«55».

Sei sempre stato a Prato?
«Assolutamente no, sono finito a Prato per amore una decina di anni fa. Ora sono residente ufficialmente, ma sono nato a Firenze. Con il mio fidanzato di allora, che è di Prato, dovevamo decidere dove stare e per una serie di motivazioni pratiche era più semplice che venissi io a Prato».

Che lavoro fai?
«Prima del Covid ero insegnante di italiano per stranieri in una scuola di Firenze, un lavoro di grande soddisfazione. Il Covid ha distrutto tutto, anche il titolare della scuola è morto di Covid e a parte la crisi del settore, ci siamo ritrovati con un’azienda acefala. Mi sono dovuto reinventare e ho avuto la possibilità di fare il custode Covid per un anno, quest’anno l’ho rifatto. Chiaramente è tutta un’altra cosa, e non si sa cosa ci riserva il futuro. Al momento la priorità è sopravvivere, poi vedremo».

Visto che hai abitato sia a Firenze che a Prato, c’è differenza fra essere un uomo gay a Firenze e un uomo gay a Prato?

«Sì. Più che altro quando ho cominciato a frequentare di più Prato, a viverla dall’interno, quello che mi meravigliava era l’assenza di visibilità pubblica dei gay e delle lesbiche in città. I pratesi vivono alla luce del sole come gay solo fuori dalla loro città: a Firenze o a Torre del Lago, o anche a Bologna. L’ottica era “A Prato non c’è nulla, quindi stiamo fra amici, a casa nostra”, e uno andava a cercare situazioni sociali altrove. Visto che io avevo, e ho, una lunga storia di militanza nel movimento, da subito ho cercato di creare un minimo di aggregazione con altre persone in città, ed è iniziato il percorso che ha portato all’apertura del centro. Prima è nato il Comitato Gay e Lesbiche Prato, poi il comitato Queer Riot. Tutto perché una persona di Prato non sia obbligata ad andare altrove per crearsi una rete di amicizie. Fino a dieci anni fa, mi capitava di frequentare Prato quando, con l’ArciGay prima e con Azione Gay e Lesbica di Firenze poi, venivamo a fare banchini alle feste dell’unità o di Rifondazione. Per fare questi banchini doveva venire qualcuno da fuori. Adesso non è più così. C’è stata una gemmazione in tante città toscane che prima non c’era. Prima c’erano solo Firenze e Pisa, entrambe molto legate all’università».

Secondo te perché a Prato non c’era niente?
«Sostanzialmente per il desiderio di anonimato: in una città più grande è più facile mantenerlo. Non che Firenze sia enorme, ma è più facile. Nel momento in cui a Prato sei a un banchino con la parola “gay” tutti, immediatamente, ti individuano e ti schedano come tale. Invece magari a Firenze, essendo più grande, le persone tendenzialmente si sentono più libere. In realtà però le persone più libere di muoversi a Firenze non erano nemmeno fiorentini: erano studenti fuori sede, gli stranieri. Vedevi che il bisogno di anonimato c’era anche da parte dei fiorentini DOC. Un’altra differenza, non che queste cose siano necessariamente collegate: secondo me a Prato pesa molto di più la chiesa cattolica, Firenze è più laica. La gente è più cattolica, in media nella nostra città. Direi anche a livello di vita sociale, servizi sociali, c’è un peso diverso e dato che la chiesa cattolica, anche se non per tutti, è strutturalmente omofoba – con tutte le eccezioni che vuoi – questo ha avuto il suo effetto. Una cosa che stimola più Firenze di Prato forse è che c’è una grossa presenza di università americane e anglosassoni, e questo da un tocco di libertà in più. Fra gli studenti stranieri che vengono a studiare arte c’è una grossa percentuale gay, ovviamente».

Cambiano anche le cose da fare?
«Ovviamente. Per esempio Firenze ha avuto locali già dagli anni ’70, sicuramente anche con una prospettiva turistica visto che c’erano turisti americani gay che cercavano e andavano in questi posti. Alla fine però la cosa ha avuto un effetto positivo, a cascata, su tutta la città: anche se il locale nasce per intercettare il turismo ci vanno i locali, che poi hanno idee per fare iniziative in loco. C’è un locale abbastanza frequentato, soprattutto da donne, e soprattutto da persone di Prato. È stato per tanto tempo a Sesto Fiorentino, poi a Campi Bisenzio, e visto che una grande fetta della frequentazione era pratese il proprietario aveva pensato di spostarsi in città. Gli hanno detto: “Non lo fare, altrimenti non ci viene più nessuno di Prato, perché può essere visto da vicini o parenti. Stai fuori, in un luogo raggiungibile, ma fuori dal Comune”. Per me tutto questo è molto ridicolo perché, per come la vedo io, viviamo in una grande area metropolitana: le distanze fra il centro di Prato, Firenze o Campi Bisenzio sono paragonabili alle distanze fra quartieri di Roma o Milano e quindi spostarmi da Firenze a Prato non è mai stato un problema, ma mi rendo conto che non è così quasi per nessuno. La mentalità è quella di mantenere delle mura psicologiche e le persone decidevano di non essere visibili nella propria città e di cercare una comunità gay fuori. Questo mi sembra ridicolo, però è così…è perdere delle opportunità. È anche colpa delle infrastrutture: se ci fosse un treno ogni 20 minuti che fa tutte le stazioni fra Prato e Firenze, a tutte le ore, come succede in altri luoghi e anche di notte, sarebbe più semplice».

Quindi la comunità gay di Prato potrebbe essere più grande di quello che sembra.
«Abbiamo sempre detto che Prato è una “bucaia” (ride) ma i gay pratesi vengono fuori solo quando passano il casello. Prato è anche interessante, è fatta di realtà sovrapposte nel tempo: c’è l’ambiente dei pratesi da sempre, poi tutto il mondo dell’immigrazione meridionale che spesso continua a vivere in zone precise, ricreando il paesino nella città, e tutto il mondo dell’immigrazione estera. Quindi nella tua piccola enclave non sei mai anonimo, e diventare visibile diventa più complicato: a maggior ragione nelle altre piccole collettività che ci sono, compreso tutto il mondo cinese. Non è semplice essere gay, lesbica o trans in modo visibile perché se lo fai lo sanno tutti subito».

Da uomo gay ti sei mai sentito in pericolo a Prato? Hai mai pensato che essere gay in pubblico, in città, fosse pericoloso?
«Io mi sono guardato le spalle da sempre, ormai purtroppo sono strutturato in questo modo. Mi lascio andare quando penso di poterlo fare. Non mi sembra che Prato sia più pericolosa di altri posti, ma chiaramente l’idea di guardarsi intorno per capire in che contesto sei c’è sempre. Gli unici posti in cui mi sono sentito davvero tranquillo sono Amsterdam e Madrid, ma anche lì può capitare qualcosa che non va. Prato non è più omofoba di altre città, anzi, forse è nella media italiana. Non ho percepito violenza. Può capitare ovunque, ma non mi sono mai sentito minacciato. A Roma o Verona mi sento molto più minacciato. Ho frequentato Verona, ho amici lì, e lì c’è proprio un’omofobia che definire istituzionale da molti anni. Qui questo tipo di omofobia non c’è, anzi: ultimamente l’amministrazione ha cercato di fare anche qualcosa di simbolico. Io cerco sempre la cosa positiva, prima ero molto più intransigente: adesso cerco di apprezzare quel poco di positivo che viene da qualunque contesto. Se una persona che viene da un’area del mondo particolarmente omofoba mi dice “Va bene, se sei così sarà volontà di Allah” io penso che sia meglio di niente. Ogni gesto simbolico, anche se a volte maldestro, che dimostra che c’è almeno una tolleranza…e tolleranza è una parola che in altri momenti mi avrebbe fatto schifissimo, va bene. Conosco situazioni talmente pesanti che dico “partiremo da qui, possiamo lavorarci”. Non che tutto vada bene, non è che accetto, ma strategicamente devi valorizzare tutto».

Quando qualcuno ti dice “Non ho niente contro i gay, ma il Gay Pride mi fa un po’ schifo” cosa gli dici?
«Gli dico di venire, perché se dici una cosa del genere probabilmente non ci sei mai stato. Se ci fosse stato si renderebbe conto che è una festa dove si vuole dimostrare, anche attraverso il proprio coorpo, che esistiamo e vogliamo essere liberi, libere e liber*. Poi c’è l’aspetto colorato, anche esagerato, come in qualunque manifestazione di gioia popolare: dal carnevale ai baccanali e via così: a me fa piacere che ci sia, ma se a qualcuno non piace questo aspetto “estremo”, che poi di estremo ha poco, vorrà dire che potrà andare in parti del Pride più tranquille e standard. La cosa bella è che ci sono persone di tutti i tipi, modi ed età che però partono tutte da un concetto di libertà e di affermazione di identità e di pluralismo. In genere le persone che dicono che il Gay Pride fa schifo non ci sono mai state e, magari, hanno visto solo immagini ritagliate ad hoc da certa stampa. A volte certe copertine su Gay Pride che non potevano essere ignorati perché erano stati molto grandi, copertine di giornali come Il Giornale o Libero, vanno a cercare il personaggio più brutto che c’era e che magari stava facendo una smorfia mentre inciampava: queste cose sono fatte a posta».

Ma così fai del male alle persone.
«Esatto: la cattiveria ormai non mi meraviglia più ma continua a farmi incazzare il fatto che non si pensa che dietro a ogni dichiarazione omofoba ci sono delle persone e che, come dice lo slogan, siano dappertutto. Può capitare di toccare anche persone che sono molto vicine a chi parla. Mi è capitato di conoscere ragazzi gay, figli di personaggi politici estremamente violenti ed omofobi, che chiaramente sono stati zitti coi genitori e non hanno mai raccontato niente di sé. Di fatto, queste persone hanno perso dei figli e delle figlie che, giustamente, hanno cercato di allontanarsi il più possibile. Questi personaggi ignorano tutto questo, o magari hanno scelto di ignorare tutto questo. Questa cattiveria è stupida, e ti si ritorce contro: qualcuno però lo fa cinicamente perché pensa che politicamente gli convenga per accaparrarsi un certo tipo di elettorato».

I partiti di destra di Prato secondo te lo pensano o lo fanno?
«Non lo so, non si può sapere. Non so se fanno gli omofobi perché pensano di avere un tornaconto o se proprio ci credono».

E la sinistra di Prato?
«Ah, allora. Dipende: la componente più vicina al mondo cattolico qualche volta ha delle grosse resistenze e fa un po’ da freno ma anche lì, visto che il cattolicesimo ognuno se lo inventa a modo suo, ci sta che qualcuno sia convintamente cattolico ma senza convinzioni omofobe. Non so, però, al momento di prendere decisioni o presentarsi al pubblico come si muovano. Ci sono persone più vicine al movimento nato e cresciuto a Prato, altre meno, e spero che tutti e tutte poi ci seguano nella difesa dei diritti, dell’amore e della libertà».