In via Santa Margherita ha chiuso dopo quarant’anni la bottega di restauro e falegnameria di Osvaldo Brizzi, uno di quei luoghi sempre più rari dove si possono veder nascere o tornare all’antico splendore le cose con le quali amiamo arredare le nostre case. Brizzi però non è stato solo l’ultimo falegname e restauratore dentro le mura. È stato anche protagonista, insieme ai residenti della zona, delle battaglie contro lo spaccio e contro il traffico che soffoca la via più disgraziata del centro storico.

Dopo mesi passati a svuotare la bottega, mesi che non esita a definire «uno strazio, perché dopo quarant’anni è stato davvero difficile lasciare, e per fortuna ho trovato gente in gamba che mi ha dato una mano per il legname, le macchine e le attrezzature», ci siamo fatti raccontare quarant’anni di artigianato in centro storico.

Un lungo racconto a ritroso nel tempo dal quale emerge non solo la Prato artigiana di una volta ma anche l’amore per quella che era una strada artigiana poi «sacrificata al traffico», e qualcosa pure del futuro, del quale dice senza mezzi termini: «Mi piacerebbe insegnare, perché se tiriamo il calzino io e gli altri vecchi falegnami si perderà un patrimonio di conoscenze».

La bottega di Osvaldo Brizzi


Osvaldo Brizzi, un falegname restauratore in via Santa Margherita. Quando sei arrivato?
«Sono arrivato in via Santa Margherita all’inizio degli anni ’80 perché c’era Galeani, che aveva una piccola bottega dove c’è stato poi quel negozio etnico diventato famoso per lo spaccio qualche anno fa. Ho cominciato lì dentro. Era talmente piccolo, e con macchine talmente vecchie e grandi, che una volta ho fatto un tavolo da ping pong che non usciva dalla porta. Poi si è liberato quel fondo davanti, eravamo in due, e lo abbiamo preso. Tanti anni di cambiali e abbiamo cominciato a comprare macchinari più seri.

Sei nato a Prato?
«No, sono nato in Umbria, ho vissuto fino a dodici anni a Monte Santa Maria Tiberina, un paesino vicino a Monterchi, dove c’è la Madonna del Parto di Piero della Francesca. Poi dai dodici ai quattordici anni sono andato in Francia perché i miei erano emigrati, lavoravano nei fiori e quindi avevano portato la famiglia in Francia. Mio fratello invece lavorava a Prato da quando aveva 17 anni e non voleva venire in Francia. A quei tempi la famiglia andava riunita, così dalla Francia
siamo venuti a Prato».

E la passione per il legno, da dove viene?
«Io ho cominciato lavorando a Legno Market in via Cavour. Mi piaceva il legno e quello è stato il primo negozio di bricolage a Prato. Poi aprirono il negozio a Pratilia e poi un altro a Milano: ho seguito tutte le aperture di questi negozi. Insomma, alla fine mi sono appassionato. All’epoca Prato era piena di falegnami. Davanti a noi, in via Cavour, avevamo due vecchi falegnami. Anzi tre, c’era anche il Piacenti. E poi dentro le mura ce n’erano almeno altrettanti».

Com’era via Santa Margherita in quel periodo?
«Era molto viva. Quando sono arrivato c’era il falegname Galeani, c’era quello che accomodava le biciclette, l’idraulico, lì accanto c’erano i tappezzieri, il Mazzinghi, poi l’Ovattoni e il Nannicini con le pezze. C’era un po’ di tutto, c’era il Benedetti che aveva un magazzino di restauro, un po’ più in là verso piazza Mercatale. Morì giovane e il fondo venne ripreso da Massimo, il suo allievo. Erano stati entrambi allievi del falegname di piazza Mercatale, Citarella, che ha insegnato il mestiere un po’ a tutti. Era bravo, quando mi serviva un consiglio chiedevo a lui. Il falegname dal quale ho cominciato io mi ha fatto fare trentamila persiane, a quei tempi si faceva quelle cose lì. Poi piano piano ho imparato per conto mio, con i libri e l’esperienza, ci vogliono un sacco d’anni per diventare un falegname restauratore. Mi hanno anche mandato un sacco di ragazzi dal Comune di Prato e di Vaiano. Il problema è che erano tutti ragazzi che venivano per uno o al massimo due mesi. Non serviva a nulla. Per tanti anni è filato tutto liscio. Era una zona viva, piena di botteghe. Addirittura quando ho cominciato io c’era il mercato di frutta e verdura sotto le logge del mercatino, c’era lo spaccio comunale lì davanti, poi c’erano le Asl. Poi gli artigiani se ne sono andati e le cose sono andate a peggiorare. Diciamo che levate le botteghe, se n’è andata una parte importante della vita della strada. Per dire, in piazza mercatale c’era i ramaio e quello che riparava gli ombrelli, adesso chi è che fa riparare un ombrello?».

Di che anni stiamo parlando?
«Per tutti gli anni ’80 e oltre via Santa Margherita e la zona del Mercatale sono state piene di vita e di botteghe. Dopo il 2000 sono arrivati grandi magazzini per l’arredamento, e poi è arrivato lo spaccio, con la gente che ha avuto paura di passare da queste parti. Abbiamo fatto un gran casino per togliere il negozio che era la base dello spaccio. La vecchietta che abitava sopra di me tirava l’acqua sugli spacciatori perché quelli non la facevano dormire. Un giorno quelli chiamarono la polizia e la polizia redarguì la signora. Allora non ci vidi più, usci da bottega e litigai con il poliziotto. La botta forte per la mia categoria è arrivata però più tardi, quando hanno cominciato a toglierci la possibilità di parcheggiare in centro storico. Carlesi ci proibì di parcheggiare in centro storico e quindi io dovevo lasciare il furgone in piazza del Mercato Nuovo e tutte le volte che mi serviva, sia a me che a tutte le altre botteghe del centro storico, dovevo andare là, usare il furgone per il servizio, riportare il furgone e poi tornare a piedi. E lì la gente ha cominciato ad andare via: i fabbri, i falegnami, gli elettricisti, tutti. Perché non era più possibile andare avanti. E sono andati in periferia dove si poteva lavorare in pace».

È indubbio sia stato un danno per gli artigiani, ma rientrava in una visione differente di città.
«Certo, poteva rientrare nella visione differente della città ma in qualsiasi città ti serve un mezzo per lavorare».

Forse andava cercato un equilibrio.
«Sì. Poi cominciarono a dare i permessi. Ma purtroppo via Santa Margherita non rientra e non è mai rientrata nella Ztl e quindi il permesso non me l’hanno mai dato. Se dovevo andare a prendere un mobile o delle persiane in centro storico c’era Giorgio con il carretto che ci andava per me ma poi gli fregarono il carretto e quindi non se ne fece più nulla. Invece quando cambiò la giunta e tornai a chiedere il permesso di parcheggiare, l’assessore Caverni me lo concesse. Mi diede il 104, quello che permette di parcheggiare e di passare sotto i varchi. Così cominciai a usare questo permesso ma presto cominciò ad essere sempre più complicato averlo. L’ultima volta non me lo volevano dare perché la macchina che uso è intestata a mia moglie e quindi mi hanno detto che l’auto doveva essere la mia. Insomma, un casino. E intanto erano arrivati i grandi magazzini, dove le persone pensano poter comprare un mobile buono a due euro. Un’altra mazzata è stata quando è calato anche il restauro, perché i giovani avevano meno soldi, case più piccine e il vecchio non gli piaceva più. Praticamente restauravi solo cose di famiglia, quelle cui tenevano per questioni familiari. E alla fine sono arrivate le ultime mazzate quando questo è cominciato ad essere un quartiere di spaccio, con la gente che ha avuto paura di passarci».

Senti, però negli ultimi anni il centro è più vivo che mai.
«Dopo un periodo di vuoto, è arrivato il mangiare e il bere, che io non sopporto. Perché aprono la sera e vanno avanti fino a notte fonda, non servono a niente al centro storico di per sé. Durante il lockdown se non avessi avuto le botteghe vicino sarei morto, perché andare al supermercato era difficile. Ne parlavo proprio in questi giorni col proprietario di una di queste botteghe, le persone si sono già dimenticate di loro, non ci fanno più la spesa perché non gli interessa niente delle botteghe. Tutto questo cambiamento in centro storico credo sia dovuto comunque anche al cambiamento che
c’è stato tra i residenti. Negli ultimi anni parecchi giovani hanno preso casa in centro storico perché è più economico».

Forse perché è anche bello vivere in centro se lo vivi tutti i giorni, è come vivere in un piccolo paese.
«Questo è l’aspetto migliore del centro storico, quello peggiore è la mobilità secondo me. Non funziona. Se sei un residente e devi usare l’auto è un problema: il parcheggio è diviso in zone, che complica la vita a tutti quando invece basterebbe un solo permesso per tutti i residenti. Diciamo che in centro si ascoltano meno i residenti e più i commercianti, e non tutti, perché io ci ho messo due anni per far fare le strisce pedonali in via Santa Margherita e poi le hanno messe dietro la curva. Quella è una strada sacrificata al traffico. L’inquinamento delle auto in una strada così stretta non riesce ad andarsene e si schiaccia in basso. E se si guarda bene, la pietra serena sopra tante porte è
consumata, è polverizzata dallo smog. Quella del traffico è una cosa che non si riesce a risolvere. Un giorno ci mettemmo sul marciapiede in curva e bloccammo il traffico per dimostrare quanto era stretta via Santa Margherita: l’autobus non riusciva a girare con due persone ferme sul marciapiede. Ho seguito per più di un anno la preparazione del Pums da cui risultava che dalla rotonda di viale Galilei passavano 15 mila auto e 600 autobus al giorno. Però mi ricordo che l’assessori Alessi, quando fecero questo Pums, mi chiamò e guardammo insieme la situazione: come blocchi qualcosa, si intasa il traffico. Tutto ruota intorno a piazza San Marco, che è una grande rotonda, ma non è stato mai fatto nulla».

Ci provò l’assessore Caverni, se non sbaglio.
«Sì, con due semafori ma non funzionò. Però almeno ci ha provato. In centro non è cambiato niente da questo punto di vista negli ultimi anni. Come siamo finiti in questa situazione? Era una strada normale finché non hanno aperto il sottopasso da viale Galilei».

E prima come funzionava?
«Prima lì c’era il muro, la terra, le auto venivano da via Cavallotti e ne venivano molte meno. Devono considerare un po’ di più i residenti, se non danno retta un po’ ai residenti il centro storico qui muore. Quale attrazione hai in centro storico se escludi il bere e il mangiare? Devono decidere cosa fare di questo piano del traffico, devono provarci. Adesso stanno restringendo tutte le strade per fare le zone 30 e allargano tutti i marciapiedi, ma manca ancora un vero servizio di trasporto pubblico. Gli autobus per la gente che lavora ci sono? Questa è una città tagliata in due dalla ferrovia. Ricordo che quando fecero la tangenziale erano tutti incroci con i semafori, adesso ci sono le rotonde ma le strade sono intasate lo stesso».

Prima c’erano molte meno auto.
«Sì, però a Pistoia la tangenziale ha i sovrappassi e non c’è un semaforo lo stesso. Hanno tagliato in due anche la zona di Maliseti e di Chiesanuova, con un sottopasso in cui la gente ha paura di andare, anche se la gente le cose se le inventa anche, perché non è così tremendo come si dice. Ai pratesi non è mai importato molto di queste cose, l’importante era lavorare, lavorare, lavorare».

In quarant’anni avrai conosciuto molto bene il centro storico e i suoi palazzi, le sue case.
«Certo, ci sono dei posti bellissimi e altri bruttissimi in centro storico. I posti bruttissimi sono quelli ai piani bassi delle strade strette, senza mai il sole, con le scale strette e umide. Quelli belli invece sono gli appartamenti ai piani alti, specie quelli all’ultimo piano, dove si trovano dei giardini pensili molto belli. L’unica cosa che manca in centro è la possibilità di mettere ascensori in tanti palazzi, e questo per le persone anziane è un problema. Molte botteghe durante il lockdown facevano il servizio a domicilio e spero che continuino a farlo».

Invece pensione forzata.
«Io non ci sarei mai andato, perché dopo quarant’anni a bottega è dura. È successo da un giorno all’altro e poi è arrivato il Covid. Insomma, è stata dura. Mi dispiace dover chiudere perché in tutti questi anni ho conosciuto persone squisite che mi hanno dato tante soddisfazioni. Perché prendere e andare a lavorare in periferia è un discorso, andare a bottega in centro storico è un altro: le persone si fermano, fai due chiacchiere, ti fai delle amicizie, si crea un circolo. E il bello del centro storico è poter fare due chiacchiere con le tante persone diverse che finisci per conoscere. L’altra sera ero a fare la spesa in uno di questi alimentari del centro e poi sono entrate altre persone e ci siamo messi a chiacchierare. Se vai al supermercato prendi il carrello e via, non parli con nessuno, è una cosa fredda. In centro storico è diverso, è tutto molto caldo. Mi ricordo quando si poteva ancora vendere il vino sciolto, negli alimentari c’era l’uovo sodo e il vino, così come sotto il loggiato in piazzetta Lippi c’era la mescita e ci venivano quelli del circolo Gori di piazza Mercatale».

Dov’era il circolo Gori?
«All’inizio di piazza Mercatale. Appena entri, sulla destra, era lì il circolo Arci. Da lì partivano gli ubriachi la sera e li vedevi passare in Santa Margherita, senza marciapiedi e senza niente, poi si fermavano sotto il loggiato di piazza Lippi alla mescita e finivano alla Fattoressa. Poi c’era sempre qualcuno che li raccoglieva e li portava a casa».

Adesso che progetti hai, a parte riposarti?
«A me piacerebbe insegnare. Molti, come dicevo, sono rimasti con me per qualche mese, ho tenuto più a lungo una ragazza spagnola che poi ha aperto una sua bottega di restauro. Mi piacerebbe insegnare il mestiere ai giovani, potrebbero fare qualche laboratorio di falegnameria o di restauro in qualche istituto professionale. Non lo so, ma se tiriamo il calzino io e tutti gli altri vecchi falegnami, si perderanno tante conoscenze. Non sono geloso, non ho segreti come invece piace ad altri. Ricordo il vecchio tornitore in via delle Segherie che ha lavorato fino a novant’anni e non ha mai voluto un apprendista. Da quando è morto lui a Prato non c’è più stato un tornitore del legno. Io ho imparato a tornire, ho comprato il tornio, ma a fare una gamba a cipolla ci mettevo un’ora, lui dieci minuti. Così quando ho dovuto fare tanti pezzi uguali, ne facevo uno e poi andavo a Quarrata. Si dovrebbe fare qualcosa per non far morire il vecchio artigianato, anche solo per imparare a riparare un serratura, restaurare un portone, un piccolo mobile. Non può andare avanti così, il centro storico deve rimanere centro storico. Invece è stato permesso di tutto, comprese le persiane di alluminio. Mi piacerebbe anche trovare uno spazio per fare un laboratorio di restauro dove le persone portano i loro mobili, io li seguo, insegno loro a restaurarlo, pagano qualcosa per il restauro e poi se ne tornano a casa avendo imparato qualcosa e con il proprio mobile restaurato».

Una parte consistente delle attrezzature e delle opere in legno della bottega di via Santa Margherita sono in vendita in via di Cantagallo 33, nella sede dell’associazione Recuperiamoci.