alice

Ora che “il maestro è andato via” (come glissano Colapesce e Di Martino nella loro canzoncina più nota) Alice, per sensibilità, per storia e per cultura, è probabilmente l’unica voce femminile che può portare su di un palco la sensibilità, la storia e la cultura di Franco Battiato. Rettifico: l’unica voce, punto. Perché l’ha sempre fatto, perché ha sempre amato e cantato quelle canzoni. Perché ha scritto tante canzoni con lui.

Così un concerto di Alice che esegue un programma interamente composto da canzoni di Battiato travalica il semplice significato di concerto e assume un’importanza che se non ha del sacro, di sicuro tocca corde più profonde. Un Politeama praticamente esaurito in ogni ordine di posto ha salutato la cantante nella nuova versione del suo “Alice canta Battiato” e l’ha tributata di lunghi applausi e di tutto l’amore possibile.

Non è la prima volta che questo evento tocca la nostra città: c’è stato un meraviglioso concerto nel chiostro di San Domenico la scorsa estate, anche se solo per piano e voce. Stavolta, ad accompagnare Alice, oltre al pianoforte di Carlo Guaitoli c’erano anche i Solisti Filarmonici Italiani, orchestra che ha replicato in maniera egregia gli arrangiamenti per orchestra (già opera del maestro Guaitoli) che furono della London Symphony Orchestra o della Royal Philarmonic quando accompagnavano Battiato nei suoi tour orchestrali.

La lunga scaletta (oltre due ore) ha avuto momenti toccanti nei brani più mistici e profondi, quali “Lode all’Inviolato” o “Povera Patria”, o momenti più leggeri e inaspettati in brani come “Chanson egocentrique” o proprio in quei brani che Alice e Battiato scrissero insieme per il repertorio della cantante di Forlì, quali “Messaggio”, “Per Elisa” (“una canzone che ho odiato, e con cui ho fatto pace da tempo”, che anticipa di un anno buono le strutture musicali e il citazionismo dei pezzi de “La voce del padrone”) e quella “Il vento caldo dell’estate”, un brano estivo con una strofa che sembra venire dai pezzi più scomposti di Philip Glass (dopo quarant’anni che la sento non sono mai riuscito a capirne la scansione ritmica della strofa, ma è un limite mio, lo so).

Poi, quando per caso ci troviamo sulla “Prospettiva Nevski”, o a passare l’estate su una spiaggia solitaria, o a cercare “Segnali di vita” nei cortili (brano interrotto da un attacco di tosse dovuto alla polvere del palcoscenico – una testimonianza d’umanità) o a battere le mani cantando la speranza che ritorni presto l’era del cinghiale bianco, è difficile non trattenere la lacrima. Perché ci troviamo ancora davanti a quella storia e a quella bellezza che ancora una volta si ripete, anche ora che “il maestro è andato via”.