festival letteratura working class
Foto Valentina Ceccatelli

Hanno provato a delocalizzare GKN nel 2021, fra la pandemia e una delle estati più calde della storia dell’umanità. Non ci sono riusciti: i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica hanno occupato lo stabilimento di Campi Bisenzio dopo essere stati licenziati via mail o con un SMS e, adesso, ci hanno pure organizzato un Festival di Letteratura della Working Class.

La reazione del liquidatore, Gianluca Franchi? “Denunceremo tutti, quelli che occupano e quelli che vanno al festival”. La risposta dei lavoratori e delle lavoratrici? L’ha riassunta D.Hunter in un panel, parlando del suo libro “Chav”: “Fuck, yeah”.

La classe operaia che si racconta in questo festival, co-organizzato con Edizioni Alegre, è quella che unisce le persone che ci permettono di aprire un computer, comprare roba al supermercato, infilarsi una maglia, svitare il tappo di una bottiglia. Tutte quelle cose le fanno loro. Quella classe ha prodotto un modo di vivere e di creare potenzialmente sovversivo, terrorizzando la cultura ufficiale, ed è quell’arte che viene finalmente celebrata dentro una fabbrica in lotta. I panel si tengono in una tensostruttura gigantesca, le persone siedono in un’arena circondata dalle casse dove venivano stipati i semiassi che si producevano qui, prima che il fondo Melrose decidesse di delocalizzare la produzione all’estero. C’è il bar, ci sono i bagni aperti a tutti i corpi, senza genere. C’è lo “Spazio Prole”, con giochi e attività per i bambini, ci sono i banchi che vendono libri e quelli degli artisti che collaborano con il Collettivo di Fabbrica di GKN.

E ci sono un sacco di persone, fra quelle che si godono il sole all’aperto e quelle che seguono i panel in corso. Non sembra che la minaccia di Franchi abbia scoraggiato qualcuno, anzi: «È un atteggiamento che mette in luce l’arroganza di certa gente. Si definiscono imprenditori ma puntano solo a fare soldi, senza creare lavoro. Anzi, lo distruggono», commenta un gruppo di ragazzi pratesi.

Il festival non si limita a raccontare la Working Class, sarebbe riduttivo: non è un blocco granitico fatto da persone tutte uguali che vogliono tutte la stessa cosa. A volte capita pure che ci siano dissapori. Che la gente si stia sui coglioni a vicenda, per capirsi. Quello di generalizzare e mettere tutti gli operai insieme in uno calderone è un vizio che tutti si devono togliere: anche all’interno della classe lavoratrice le differenze e i bisogni sono diversi. Ci sono le donne e i migranti, chi ha famiglia e chi non ne ha. Hanno tutti bisogni diversi, e tutti degni di essere esauditi. La classe operaia è anche quella di D.Hunter: parte della comunità dei bianchi “sbagliati” nel Regno Unito, perché irlandesi e “travellers”, gitani, spesso odiati anche dalla classe operaia “buona”, fatta da inglesi in tuta blu. “Chav”, il libro che D. Hunter ha portato a Campi Bisenzio, racconta la presa di coscienza di un ragazzino che ha interiorizzato il pregiudizio che i “bianchi buoni” hanno nei suoi confronti, e che solo dopo anni si rende conto che no, il razzismo e la violenza che subisce non sono giustificati. È un vizio, quello di mettere tutto e tutti in un calderone zupponi, che si deve togliere soprattutto chi prende decisioni sulla pelle degli operai. La verità è che chi prende le decisioni è talmente scollato dalla realtà che non è in grado di prendere iniziative del genere.

Qui a Campi Bisenzio, invece, credo che di gente in grado di prendere decisioni sulla propria pelle ce ne sarebbe un sacco. Alla fine ci vivono dentro, magari ci capiscono un po’ di più.

Foto Valentina Ceccatelli

Un primo mito da far cadere: gli italiani non leggono. Non so quanto le persone che frequentano questo festival di letteratura possano rappresentare il paese, ma ognuno gira per i capannoni con almeno un libro in mano, nuovo o tutto spiegazzato che sia.
Secondo mito da far cadere: gli operai non sono solo quelli che ti fanno vedere in tv, gli artigiani della qualità, o quelli che starebbero 24 ore a rigirare il formaggio. Nessuno vuole arrivare a 95 anni davanti a un tornio, e la romanticizzazione di questa idea si traduce nella certezza che il liberismo non abbia limiti né data di scadenza.

Spoiler: non è vero. «Vogliamo andare in pensione – dice la sociologa del lavoro, Francesca Coin, davanti a un capannone pieno di gente – Vogliamo la settimana lavorativa più corta. Vogliamo il diritto a vivere e non a sopravvivere». Vogliamo uscire dalla fabbrica e dall’ufficio con la luce del sole, non entrarci quando deve ancora sorgere e uscirne quando è già tramontato. Vogliamo che i supermercati chiudano la domenica. Vogliamo che le persone capiscano che comprare le scarpe da ginnastica la domenica all’outlet, serviti da una commessa precaria, non è la cosa più necessaria del mondo.

Vogliamo lavorare per vivere, non vivere per lavorare. E vogliamo che il lavoro torni ad essere un diritto, e non una maledizione da sopportare per arrivare a fine mese. Il fatto che poi in molti nemmeno ci arrivino, a fine mese, rende bene l’idea di quello che sta succedendo.

Che il mondo sia diviso in classi non è una novità, l’India ci ha costruito un intero sistema di governo: noi non siamo così organizzati a livello ufficiale, ma ho idea che ci stiamo arrivando. Ornella De Zordo, in un panel, l’ha spiegato bene: «Le differenze di classe si vedono da quale supermercato puoi permetterti di frequentare – ha detto – quale accento hai, a quale scuola vai, che marca di scarpe puoi metterti». Quando abbiamo iniziato a non farci più caso? Si chiede questo festival. Quando è successo che lavorare tutti i weekend sia diventata la normalità, che lavorare a Capodanno e per la Vigilia di Natale sia scontato, e che le grandi catene ci facciano pure le pubblicità, vantandosene? Quando è successo che non sapere se fra sei mesi avrai ancora un lavoro sia la regola, e che sia permesso dalla legge? La chiamano “flessibilità”, ma “precarietà” rende meglio l’idea di come vive un’intera generazione.

La classe operaia raccontata qui a GKN dice questo: dice che esiste, che non vuole più esistere nel modo in cui esiste ora, che non è giusto dover esistere così, e che il minimo a cui un essere umano dovrebbe aspirare sia vivere, non semplicemente esistere. La letteratura della classe operaia prende a spallate le antologie del liceo e le classifiche letterarie delle riviste in edicola perché racconta la realtà com’è: e la realtà com’è non è facile, la realtà è un casino, e nella maggior parte dei casi fa pure schifo.

Ma se nessuno vi avverte che qualcosa fa schifo come pensate di poter iniziare a cambiarlo?

Quando i panel finiscono e usciamo dalla tensostruttura che ci ospita vediamo famiglie, ragazzi e ragazze, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici che mangiano, parlano, bevono qualcosa, si registrano per la cena in mensa. E onestamente l’idea di denunciare tutte queste persone come se fossero criminali pericolosi sembra ancora più ridicola.