Il Solito Dandy

C’è un tipo vestito come negli anni ‘60 che ogni tanto compare in centro storico a Prato. Capelli lunghi e occhiali, ha trent’anni, vive a Roma e si chiama Fabrizio Longobardi. Probabilmente però lo conoscerete come “Il Solito Dandy”, uno dei protagonisti assoluti dell’ultima edizione di X Factor, il talent musicale di Sky. Lo abbiamo intercettato grazie al suo manager pratese, Giacomo Coveri.

Come sta andando dopo il terzo posto a X Factor?

«Sono uscito da X Factor venerdì 8 dicembre, perché giovedì abbiamo fatto la puntata e venerdì ho rivisto un po’ la libertà. E da lì ho iniziato a capire un po’ di cose: ti cambia la vita perché ti fermano per strada, cioè non puoi più prendere i mezzi pubblici. Ma nel senso positivo. Perché ti fermano e conosci un sacco di gente nuova e hai modo di scambiarti pareri: è una cosa bella perché ti rendi conto che hai fatto una cosa bellissima. Dici “Cavolo, davvero questo programma mi ha regalato tanto e ha regalato tanto alle persone?”. La risposta è sì. La musica è condivisione. Partendo da questo presupposto, tu sei stato due mesi dentro questo loft e sicuramente con questo programma la condivisione è avvenuta. Ma te me rendi conto ancora di più quando esci fuori e incontri le persone. “Allora per queste persone ho fatto davvero qualcosa, pensi, e loro hanno fatto qualcosa per me”».

Credo sia il sogno di tutti i musicisti e degli artisti in generale.

«Tanti vogliono diventare famosi, ma non è mai stato quello il mio sogno. Il mio sogno è ovviamente quello di riuscire a creare connessioni con le persone, ma dall’altra parte, lo metto in una maniera più venale, quello di riuscire a fare di questa passione un mestiere. Cosa a cui X Factor sembra adesso iniziare a dare concretezza, perché se arrivi terzo in un programma che ha visto migliaia di persone iscritte e tutta una serie di dinamiche, cominci a pensare che forse questa cosa può essere possibile. Anche se non è scontata».

A X Factor non è venuta fuori solo la tua gran voce e il tuo stile vintage ma anche il tuo approccio al mondo, che potremmo definire candido, puro, romantico. Ti senti davvero un romantico?

«Sì, ti dico di sì. Ho la mia visione. Credo nel bene, okay? Credo nel bene universale, credo nel fatto di augurare il meglio anche a chi ti fa star male, perché se tu auguri il meglio a una persona, quella smette di farti star male. Quando facevo il commesso in un negozio di abbigliamento e dovevo chiudere il negozio, iniziavo a sistemare i vestiti e arrivavano sempre i clienti dell’ultimo minuto, che non ci pensavano minimamente a quello che stavo facendo, ti toglievano l’ultima maglietta da sotto e ti ritrovavi la pila di vestiti tutta rovesciata e tu l’avevi appena sistemata ordinatamente. Mi ricordo un collega che si arrabbiava sempre e io gli dicevo “Ma guarda che queste persone stanno male perché se fanno una cosa del genere stanno male, quindi gli auguro di star bene”. Perché? Perché se questi stanno bene si rendono conto che io ci metto trent’anni a sistemare le magliette e mi vengono incontro. E così diventa un mondo dove se tu auguri il meglio al prossimo, quel prossimo lì non ti manda a cagare, non ti taglia la strada, non si arrabbia e non distrugge questo mondo. Ora sembra un pensiero da santone perché sembra una cosa talmente lontana, ma invece è semplice. Perché chi butta la cartaccia è poi il primo a lamentarsi che è sporco. Ma allora non sporchiamo, prima le vite degli altri, principalmente, poi tutto il mondo che ci circonda. Quindi questo mio pensiero puro nasce da questi pensieri. Dall’altra parte nasce anche da altro: vivo nel duemila e ventitré come tutti noi…».

E ti ci ritrovi nel 2023, sei a tuo agio?

«Sì, mi ci ritrovo. Non sono un nostalgico di anni passati, li apprezzo e mi piacciono, ma io sono felice di essere qui. Non ho la sindrome di Midnight in Paris, dove se avessi vissuto in quegli anni sarebbe stato tutto diverso. Chi viveva magari negli anni Sessanta, voleva vivere negli anni Trenta e chi viveva negli anni Trenta voleva vivere alla fine dell’Ottocento. Quindi questo sentimento un po’ romantico che ritrovo soprattutto nei film e nelle canzoni che mi piacciono, cerco di applicarlo alla realtà di tutti i giorni. Perché io, Fabrizio, faccio parte del 2023, non faccio parte degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta o quant’altro. Quindi dico “quelle cose mi hanno insegnato a vivere, perché non le posso applicare oggi nella mia vita di tutti i giorni?”. Quindi scrivo canzoni che mi fanno sentire libero. Oggi ci sono magari tanti brani o tante situazioni, anche solo nel mondo social, che ci fanno sentire sbagliati, sempre un po’ incanalati, un po’ etichettati. No, io voglio una canzone che mi faccia sentire libero. Voglio una canzone che mi faccia sentire così o che amplifichi il sentimento che provo in quel momento, e avviene quello. Io mi ascolto e dico “Oh cavolo, come vorrei questa cosa” e bam! Vai, si scrive, è libero, è tutto libero. E quindi, sulla scrittura, cerco anche di scrivere delle canzoni che possa cantare io come chiunque altro, scrivo la musica che vorrei ascoltare. È semplice: vivo nel 2023 però le canzoni di tanti cantautori italiani mi hanno insegnato a vivere e quindi quell’insegnamento me lo porto dietro. È come i nonni o i genitori, che ti insegnano una cosa e tu poi dici “Questa cosa mi è servita”, e allora la applichi nella vita».

E il nome “Il Solito Dandy” è un riferimento ironico a questo approccio.

«Sì, l’ironia è fondamentale. Cioè, raga, non prendiamoci sul serio, perché quando ci si piglia sul serio, se ci pensi, è un disastro, perché tutto è o giusto o sbagliato, è tutto netto. Se iniziamo a giocare al mondo come fanno i bambini, se ti poni in quella condizione di giocare, mantieni intatta la curiosità e l’ironia diventa la chiave per costruire un mondo leggero ma non superficiale».

In un’intervista di qualche tempo fa, parli di un sentimento agrodolce che equivale ad un momento in cui sei felice ma anche un po’ malinconico, quando stai bene e ti senti piccolo in un mondo gigantesco. Ripensandoci, credo compaia spesso nelle tue canzoni: la felicità è sinonimo di libertà ma anche trovare una propria finitezza nel mondo. Che sentimento è?

«Riguarda lo scontro con la realtà. Fa parte forse anche di quelli che vengono definiti “sognatori”. Tu aspiri a cose gigantesche o vivi cose piccole in maniera gigantesca. Dall’altra parte è una chiave per valorizzare la realtà. Ricordo quando ci siamo trasferiti a Roma. Viviamo in un quartiere orribile, che sta degradandosi anno dopo anno, ma a me sembrava di stare a Hollywood. Ma perché? Perché la chiave di lettura è un filtro. E anche i sentimenti agrodolci impari a valorizzarli. Un po’ con la tua tenerezza, un po’ dicendo “Vabbè, dai, ho fatto il mio”. Mi vengono in mente certi film di Francesco Nuti o alcuni altri di Verdone. È un sentimento forse molto italiano questo, dove vedi quel personaggio che ti fa simpatia, che ha la sua semplicità nel tutto e che ci prova, ci prova sempre anche se magari sa che tornerà sconfitto. È in quel momento che compare il sentimento agrodolce, cioè “io tutto quello che potevo fare l’ho fatto, tutto quello che devo dare l’ho dato” e, non so come dirti, in senso positivo ti lasci anche un po’ cullare da questa sensazione. Io mi vedo molto così».

Qual è il sentimento più importante di tutti?

«Non esiste un sentimento più importante di tutti. Quelli che proviamo sono sfumature. Alla fine è come se dipingessi delle tavole sempre di giallo. Dopo un po’ che fai sempre giallo puoi scoprire il blu. E dici “Cavolo se mi piace il blu come colore!” e allora metti il blu di fianco al giallo. Poi, ad un certo punto, ti metti a mischiare il giallo col blu e diventa verde e inizi a fare un’altra roba nuova e scopri addirittura il rosso. Cioè, capisci che è questa la vita e che questi sono i sentimenti. E più vai avanti e cresci – l’ho visto anche con le canzoni dove all’inizio era tutto amore universale, anche un po’ adolescenziale – riscopri dei lati che magari ti eri dimenticato di te stesso. Ultimamente mi sto prendendo molta cura delle mie tenerezze, che avevo nascosto perché sai, quando sei ragazzino devi sembrare figo e allora non puoi essere tenero. Dopo un po’ ho scoperto che invece potevo essere figo con le mie tenerezze e questo percorso a X Factor mi ha aiutato ancora di più a tirarle fuori».

Un libro, un disco e un film fondamentali?

«Con la pletora di cose che ho in testa, dirne una diventa difficilissimo. Ok, ci provo. Ti dico quelli che mi porterei su un’isola deserta. Parto con il disco, che è una certezza: “Dalla” di Lucio Dalla. Quel disco è tutto. Diventa anche ovvio dire che è perfetto. Perché? Perché c’è tutto: c’è l’amore, c’è la risoluzione del mondo, c’è quel fatto di sentirsi piccoli, c’è il sognare, c’è il vedere la realtà con ironia ma allo stesso tempo con profondità, c’è tutto. E c’è “Futura” alla fine, che è quella roba che ti fa credere ancora nell’amore, cioè due ragazzi in tempo di guerra – che poi la guerra può essere anche solo una metafora della paura di amarsi – e la voglia di creare un futuro migliore. Mamma mia».

E il libro e i film più importanti?

«Ti dico un libro che mi ha cambiato la vita. Ti prendo un romanzo perché al di là di tutti i miei libri spirituali, metafisici e psicologici sento che questo è un’altra certezza: “Favole al telefono” di Gianni Rodari. Perché nel linguaggio surreale dei bambini noi adulti riusciamo a riscoprirci. Riesce sempre a sorprenderti. È stato anche il libro che se da bambino lo leggevo con mia nonna, era lei a leggermelo, quando poi lei stava morendo gliel’ho portato e ci siamo messi a leggerlo insieme. Si sono invertiti i ruoli e quindi ho anche questa tenerezza di dire “Cavolo, è quel libro che collego sia al momento in cui ero bambino sia al momento in cui son diventato adulto e la bambina era mia nonna perché ero io che dovevo accudirla”. Anche per il cinema è difficilissimo scegliere, ma direi “La Doce Vita” oppure “Otto e mezzo” di Federico Fellini, che mi accompagna da tutta la vita. Direi soprattutto “La Dolce Vita”, anche se oggi forse mi sento più “Otto e mezzo”».

Se Il Solito Dandy è a Prato è “colpa” del suo manager, Giacomo Coveri. Che rapporto hai con questa città?

«Prato l’ho scoperta piano piano negli ultimi due anni e più vado avanti e più mi sorprendo. Prima di tutto Prato vuol dire andare a mangiare la “ciccia”. Cioè vuol dire avere la certezza che lui (Giacomo Coveri ndr) mi porterà a mangiare la bistecca. La cosa che mi ha più affascinato è stata invece quella sera che siamo andati al Fabbricone e c’erano i telai che lavoravano. Proprio come in “Madonna che silenzio c’è stasera” di Francesco Nuti. Io vedevo quel film e quasi non lo capivo. Poi sono venuto a Prato e ho capito tutto. Si è aperto un mondo, ed è una città che nel suo essere piccola, nel suo avere un aspetto di paese che non ha uno spirito internazionale, mi sembra trovare la propria bellezza proprio nelle cose semplici delle persone che si incontrano per strada e chiacchierano. L’ultima volta siamo andati in un posto bellissimo (il centro Pecci ndr), dove scopri arte contemporanea in un luogo assurdo, sembra quasi berlinese o comunque di stampo nordeuropeo. Sono rimasto incantato. E ti dirò di più. Sono un grande fan dei paninari, del cibo notturno, di andare a mangiare dopo che si è fatta serata e apprezzo tantissimo il forno di piazza Mercatale. Ma quando andiamo in viale della Repubblica, allora lì magno che è un piacere!».

Ultima domanda: che progetti ci sono in ponte per il 2024?

«Dopo X Factor, dopo essermi di nuovo ambientato nel mondo e aver fatto le prime riunioni, stiamo lavorando sulla musica dal vivo e quindi su un tour. Anche perché sono stato in televisione, un personaggio quasi di fantasia per tutti questi mesi, ma io parto dalla musica dal vivo e mi piacerebbe tantissimo ritornare a suonare dal vivo: questo è il punto di partenza del dopo X Factor. E poi c’è tutto il resto, ovviamente. Io non smetto mai di scrivere, non smetto mai di cantare».