Stanno morendo rockstar, lo stanno facendo a un ritmo più grind che rock. Lemmy a dicembre, David Bowie a gennaio; le quote dei bookmaker si abbassano sempre più riguardo ad una ipotetica e imminente fine di qualche altro pezzo grosso in ambito musicale. Perché un tale accanimento nefasto nei confronti di questi beniamini delle masse ai quali tutti ci rivolgiamo con gratitudine?  La risposta è semplice e inequivocabile: perché si tratta di persone anziane, che per essere assurte allo status di rockstar hanno pure vissuto in maniera esagerata, spesso insalubre; mica si diventa dei maschi alpha con lo yoga e le carotine lesse.

La retorica ridicola della stampa, fra “stelle che non brillano più”, “battaglie perse contro le malattie” e patetiche elegie, non manca mai di sottolineare come queste persone siano insostituibili e il fatto che il rock muoia con loro; frasi vuote sulle quali è però interessante soffermarsi utilizzando punti di vista diversi. È vero che non ci sono nuove rockstar? Vero, ma non certo perché manchino persone parimenti capaci, profonde, creative e dallo spirito pionieristico rispetto a quelle trapassate, semplicemente non esiste più il sistema che le creava, né il terreno che le faceva attecchire e prosperare.

Questi pochi divini personaggi ancora in attività sono dei “dead man walking”, fantasmi residuali prodotti anticamente da ingranaggi ormai distrutti, purtroppo o per fortuna, dalla rivoluzione digitale, che ha sconvolto il mondo della musica come nessun altro. Non è un caso che l’ultima rockstar venuta al mondo sia stata probabilmente Kurt Cobain (anche se uccidersi prima dei trenta rende tutto più semplice in questo senso), nato a fine anni ’60, morto negli anni ’90, alla vigilia dell’ingresso massivo nelle case dei pc collegati in rete.

I negozi di musica iniziarono a chiudere, i cd diventarono in fretta obsoleti, l’industria di settore crollò di fronte alla frenetica primavera anarchica e democratica della musica. I ragazzini iniziarono ad avere gratuitamente accesso a una quantità infinita di musica e a poterla creare con poca spesa, ponendosi su una vetrina globale al pari di chiunque altro, o quasi. La tirannia delle potenti case discografiche fu sconfitta insieme alla possibilità che queste avevano di plasmare le rockstar e pomparle all’estremo, imponendole di fatto ad un pubblico che mediamente aveva alla propria portata una fetta assai limitata della produzione discografica mondiale.

C’erano le classifiche, i Supertelegattoni, e ancora classifiche al posto dei talent nei quali misurarsi, ma senza troppa concorrenza e in tempi dilatati, durante i quali le stesse canzoni giravano milioni di volte, in una corsa al primato che formava la nuova rockstar: un perfetto mix di pop culture e ragionevole trasgressione (q.b.), con l’aggiunta di un tocco artistico-intellettuale, un’impronta glamour, l’accostamento a movimenti culturali emergenti e un marketing estremo a supporto, capace di stimolare gli animi di moltitudini non ancora distratte dall’avanguardia popolana dell’hip hop o della musica elettronica.

In un periodo storico di secolarizzazione delle masse, il rock rappresentò una nuova religione portatrice di valori, piena di miti, di dei, di culti sostitutivi rispetto a quelli tradizionali, tanto da regalare illusioni per cui il personaggio coincidesse con la persona. Per i fan, la perdita di David Bowie (o come dicono nei tg, Devid Baui) equivale davvero alla perdita di una persona cara, di una colonna spirituale portante che li ha cresciuti e accompagnati durante la vita, come se non restassero i dischi, che dopotutto erano e restano l’unico tramite con l’uomo-icona. Tutto ciò è genuino e stupendo, quasi commovente, finché non sfocia nel pacchiano, ma come possono non tornare alla mente le righe scritte da Christane Felscherinow (la tossica dello Zoo di Berlino), che mentre nel suo primo libro descriveva il Duca Bianco come un oracolo sacro, nel secondo, dopo averlo frequentato, lo rivaluta come un tipo piuttosto sgarbato e per niente simpatico?

Questo per capire la potenza di tali figure, che della religione rinnovarono una rigida struttura piramidale. Tale verticalità gerarchica fondata sulla devozione è stata nel tempo sostituita da una “tendenza all’orizzontalità” basata sulla pari dignità e sulla possibilità di ognuno di avere dei follower, in cui il fruitore si mischia all’artista, che perde la funzione di guida diventando un semplice tassello dell’ego altrui. Tutto ciò è frutto di un’epoca ateista e disillusa in cui l’individuo tende ad essere il dio di se stesso, ad abbandonare certezze in nome di libertà assoluta e di un’identità diffusa, personalizzando la propria nicchia culturale identitaria scegliendo continuamente in un mare dove la musica si diluisce e affonda rapidamente per lasciar spazio ad altra.

Non esistono rockstar ventenni o trentenni? Come potrebbero, se il terreno culturale è l’individualismo esasperato? Come, se il mercato e le mode sono un tritacarne veloce come un click, che non lascia tempo per radunare i fedeli? Non basta pippare mezzo chilo di bamba nel camerino con Kate Moss e vendere le foto alle riviste patinate per diventare immmortali (Pete Doherty? Chi?), ma questo non vuol dire neppure che il testimone non sia stato raccolto o che lo spirito sia morto, significa che l’estetica è cambiata, e per chi ama davvero la musica ciò non rappresenta né un bene né un male, ma un naturale dinamismo pieno di opportunità.

Chi non riesce a cogliere questi mutamenti rintanandosi nel lutto, sarà condannato a vivere nella nostalgia, in rockoteche sempre più simili a balere, nel melodrammatico passato degli anni della gioventù, o nel fraintendimento clamoroso e insensato della guerra fra generi musicali, perdendosi di fatto un universo di musica nuova e di grande valore.

Niente si distrugge o si dimentica, tutto si trasforma, pronto magari a tornare ciclicamente, ma deve essere comunque gratificante vedere nella musica un processo culturale complesso e immortale, nato come prima forma di arte umana, che varia di eredità in eredità e che non muore assolutamente con l’epoca degli dei, né tantomeno col loro vissuto fisico.

Foto d’anteprima: Glastonbury 2011 – Wikipedia