giochi di famiglia 05“Ma perché non ci fanno entrare? È quasi ora”.
“Secondo me inizia proprio qui”.
“No…ma che dici?”
“E secondo te cosa ci fa quell’impalcatura in fondo? Guarda, te l’ho detto: inizia”.

Conversazione da bar nell’attesa del debutto. Inizia nel foyer del Teatro Fabbricone Giochi di famiglia, il testo della drammaturga serba Biljana Srbljanovic per la regia di Paolo Magelli.

Dove ci troviamo? E chi può saperlo! È un luogo non luogo, in cui nel prologo un operaio (Fabio Mascagni), sale su un’impalcatura di ferro e si mette a parlare delle gocce di pioggia, che per una serie di sfortunati eventi cadono nella canala fino ad ingrossare, una dopo l’altra, il fiume della città provocandone l’esondazione. Tutto questo per dire cosa? Che quella città è davvero strana, perché accadono cose bizzarre e perché non è facile lì essere bambini.

Bambini, appunto. Ci spostiamo nel teatro e la scenografia che si presenta di fronte ha qualcosa di surreale. Un incubo, un luogo che persino il mondo ha schifato: un cantiere? una discarica? Intorno sono disseminati giochi per bambini, un container ed una betoniera sullo sfondo. All’improvviso entra una donna (Elisa Cecilia Langone), ma dagli atteggiamenti sembra di più una bambina, che gioca con una pozzanghera e poi ribalta con rabbia la facciata del container. Tre personaggi in fila sorridono immobili al pubblico, come se fosse un’istantanea.

Non mi hai fatto male faccia di maiale. Sono bambini che giocano a fare i grandi, complici degli abiti e delle scarpe oltre misura. Dai loro sorrisi si avverte subito che c’è una forzatura. Il loro gioco infatti non è per bambini. Milena (Valentina Banci), Vojin (Mauro Malinverno) e Andrjia (Francesco Borchi) giocano a fare la famiglia a suon di finti tentati omicidi e stupri. Viene da pensare che sia colpa dei genitori, che lasciano i figli abbandonati a se stessi in strada. Ma non c’è nessun dito da puntare: i veri genitori non fanno mai l’entrata in scena, forse assenti oppure soltanto negligenti.

Anche la famiglia per gioco non è una vera famiglia: il padre picchia la madre, il figlio dà fuoco ai genitori mentre dormono. Come se non bastasse, in questo paese senza nome è vietato il libero pensiero. Chi ti ha autorizzato a pensare? L’unica filosofia possibile rimane l’indifferenza: testa nella sabbia e culo al muro.

A dare delle coordinate spazio-temporali ci pensa la guerra. Come si dice in inglese guerra? Siamo infatti a Belgrado. Ma la guerra non è finita. No. O meglio, lo è soltanto per i morti; per i vivi è un déja vu delirante, che riecheggia nelle menti dei personaggi con il rumore degli spari e dei bombardamenti. La guerra ha lasciato strappi ovunque, soprattutto nelle persone. Ha tolto la speranza di credere e di vivere. Con la partenza del figlio Andrjia che abbandona il paese perché qui non c’è più niente, termina la farsa, che nel finale scivola quasi impercettibilmente nella realtà. Come se i personaggi non giocassero più o avessero perso anche la voglia di recitare la loro parte. In quella città strana e di pietra, in cui non volavano più né i fiocchi di neve, né i petali di fiore.

Valentina Cirri