CrossKitchen e Fab Your Life, i progetti vincitori di CrowdPrato (percorso partecipativo promosso da Camera di Commercio, Unione Industriale e Fondazione Cassa di Risparmio di Prato) hanno cominciato gli incontri che li vedrà affiancati da esperti di sviluppo aziendale. Martedì scorso, è arrivato infatti a Prato Giovanni Petrini, esperto di processi di incubazione e di business development per imprese profit e no profit ad alto valore sociale. Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Come le sono sembrati i due progetti vincitori di CrowdPrato?

“Grande passione, grande voglia di mettersi in discussione e di risolvere problematiche collettive. Una focalizzazione dei progetti sull’impatto sociale, culturale e ambientale: il voler fare qualcosa per il bene di tutti, una caratteristica molto interessante anche da un punto di vista economico e imprenditoriale. Nel senso che le aziende che funzionano oggi da un punto di vista economico, sono quelle che garantiscono prodotti che hanno un impatto positivo da un punto di vista ambientale, culturale e sociale. Una buona precondizione: quello che manca a questo punto, ma è normalissimo così ora, è un’esperienza su cosa vuol dire fare impresa. Si impara facendo e parlando con chi ha fatto”.

Come si fa innovazione sociale oggi?

“Senza dubbio si parte dal bisogno, dall’esperienza diretta che si vive in quanto cittadini. Il percepire un problema o un’opportunità è la precondizione di dire “ok, proviamo a risolvere il problema o approfittare di questa opportunità”. La seconda cosa è che l’innovazione sociale non si fa da soli, è un’azione collettiva per definizione. La terza è che deve essere sostenibile, deve durare nel tempo. Non è detto che questo comporti l’utilizzo di denaro, ma sicuramente ci vuole qualcuno che ci metta delle conoscenze, del network, delle competenze, la passione. Per fare innovazione bisogna capire il problema, progettare un intervento, realizzarlo e allocare del tempo.

I progetti vincitori venuti fuori da CrowdPrato hanno due esigenze differenti e forse non solo locali.

“L’integrazione e il riutilizzo degli spazi abbandonati son due problemi di questo Paese. Son due casi molti interessanti perché in entrambi i casi il problema ha dentro di sé delle potenzialità molto forti che possono diventare grandi opportunità. Il problema del primo caso è il lavoro sull’intermediazione culturale: c’è molto da lavorare sul conoscersi e capirsi. Nel secondo caso c’è un problema da un lato grossissimo di diritto amministrativo, di vincoli burocratici quando il bene abbandonato è pubblico, e dall’altra un lavoro per un cambio di ottica da parte del privato che molto spesso fa affitti esorbitanti e preferisce tenere il suo complesso sfitto piuttosto che abbassare. Il privato sta capendo piano piano che è finito questo tempo, però: secondo me arriverà il momento in cui sempre più proprietari capiranno che l’unico modo di mettere a valore i loro beni è quello di affittare magari gratuitamente inizialmente in cambio della riattivazione, affittare a progetti innovativi. Su questo sarebbe molto interessante da parte della pubblica amministrazione, facilitare il cambio d’uso degli edifici per esempio e alzare la tassazione in maniera pesante per chi tiene una proprietà sfitta. Su questo i comuni hanno degli strumenti su cui lavorare. Anche a Milano si sta lavorando in questo senso contro chi tiene i fondi sfitti per tanto tempo”.