“Isis e terrorismo: quali risposte dalla comunità internazionale?”. Questo il titolo dell’incontro che si è svolto martedì sera nell’ex sede della circoscrizione nord di Galcetello e che ha visto contrapporsi con tesi spesso diametralmente opposte il sottosegretario del ministero degli Esteri Mario Giro e il docente di Relazioni Internazionali dell’Università di Firenze Luciano Bozzo. Una divergenza che ha spesso acceso gli animi. A moderare Matteo Vannacci, segretario del Pd di Coiano, organizzatore della serata.

“Dopo gli attentati di Parigi – ha esordito il Vannacci – ci siamo chiesti perché l’Isis abbia deciso di colpire il cuore dell’Europa, nonostante la sua base territoriale sia nella Grande Siria. E due sono le chiavi di lettura più gettonate: una è che ad aver spinto questa organizzazione terroristica ad attaccare l’Occidente è il tentativo di spingerlo a radicalizzarsi, a stringere le misure sicurezza e quindi a destabilizzare la normalità democratica. L’altra chiave di lettura vede, invece, un Isis che ha agito per generare il disimpegno militare e per costringere l’Occidente e la Francia a lasciare campo aperto a chi vuole il grande califfato. A voi, nostri ospiti, l’analisi dei fatti”.

“Cosa sono stati gli attentati di Parigi? Come li definiamo? – ha quindi preso la parolai professor Bozzo – Se guardiamo alla situazione internazionale dai primi anni duemila, si staglia una lunga serie di attentati che rispondono a una medesima matrice di fondo rivendicata da sigle diverse. Parigi non è stato l’unico tragico attacco jihadista. Basti pensare agli attentati a Madrid sui 4 treni regionali: 191 morti e 2057 feriti di cui molti gravi. E mi viene in mente l’attacco al museo ebraico di Bruxelles, le bombe a Londra con 56 morti e 700 feriti. Il blitz nell’hotel in Mali, le 6654 vittime di Boko Haram in Nigeria e la lista è lunga, lunghissima, che arriva a vari omicidi in Europa come quello del regista in Olanda, dei militari di Nizza, e così avanti. Parigi dunque va inquadrato in un problema più grande, riconducibile alla medesima matrice islamica. La domanda è: si tratta di una guerra o non è una guerra? Ed è qui che faccio riferimento al libriccino del mio maestro, Giovanni Sartori, che precisa come non sia banale la scelta delle definizione, perché a ogni singola parola scelta seguono azioni precise. E Sartori dice: sì è una guerra. E molti paesi d’occidente sono sotto attacco. E appellandomi al motto E’ meglio morire in piedi che vivere in ginocchio anch’io lo ripeto: ritengo che ci sia una minaccia, un conflitto armato. Un qualcosa di nuovo e complicato.
Qual è il fine di tutto ciò? Per rispondere cito un articolo pubblicato dal Foreign affairs, scritto da Stephen Walt, che afferma come l’Isis si configuri come uno stato tipicamente rivoluzionario. Da un lato è uno pseudo stato che controlla territori, organizza il welfare, impone e riscuote le tasse, ha un’intelligence, gestisce le forze armate, si occupa di coordinare servizi pubblici, insomma amministra e controlla il territorio; dall’altro si basa su un’organizzazione terroristica riconosciuta da tutti come tale. Questo stato rivoluzionario fa parte della galassia del radicalismo jihadista islamico e ha gli obiettivi tipici di ogni Stato rivoluzionario: affermarsi attraverso la propaganda utilizzando la violenza. Gli attentati e tutto il resto delle violenze si spiegano in questa ottica. Una strategia rivoluzionaria che punta alla radicalizzazione dell’avversario e allo scontro.
Con gli attentati di Parigi puntavano a ottenere disimpegno? Non credo. Come non credo sia frutto di improvvisazione. Dietro le azioni di Daesh c’è una pianificazione sofisticata, menti non banali, strateghi che conoscono l’avversario, ossia Noi, meglio di quanto noi stessi ci conosciamo. È una trappola questa? Dipende da come facciamo fronte al fenomeno appena definito”.

E le strategie possibili sono tre secondo Bozzo:
“1 – Un’escalation militare che utilizzi la forza sul terreno per mettere fuori gioco Daesh in quanto pseudo-stato. Le analisi più attinenti mi danno Daesh con un esercito che oscilla fra i 20 e i 30mila combattenti sul campo. Diciamo che le stime più esagerate indicano un massimo di 100mila uomini relativamente ben equipaggiati perché hanno tutte le forniture che erano del governo iracheno. Inoltre, si muovono su territori desertici e non è dunque un problema individuarli. Il problema quindi è solo politico, perché avremmo ottime possibilità di successo sul campo. Noi ci siamo già cimentati in quell’area e sempre con effetti drastici, perché lOccidente è diventato bravo a fare un certo tipo di guerra, ma non è altrettanto bravo a fare la pace. Non ci sono intelligenze per gestire il post bellico, quindi è inutile vincere le guerre.

2 – Adottare la strategia inaugurata dagli Usa: dissanguamento lento dell’Isis. Continuare dunque a bombardare con aerei, droni, cacciabombardieri e chiedere ai curdi di turno, agli sciiti, a hezbollah di risolverci i problemi sul campo. Una strategia che richiede lunghi tempi per il successo e forte determinazione politica senza cambi di rotta. Per non parlare delle risorse. Il dissanguamento funziona a patto che non ci dissanguiamo noi.

3 – Non prendersela con l’Isis in quanto sono i migliori nemici dell’Iran e quindi ci rendono un ottimo servizio in Medioriente. Ma questo atteggiamento aumenta il caos. Ed è quello tenuto dagli Usa da quando hanno perso il controllo dell’Iran con la rivoluzione di Khomeyni del 1979. Un colpo al cerchio e uno alla botte”.

Ed è qui che, visibilmente impaziente di dire la propria, prende la parola il sottosegretario Giro, contrastando tesi per tesi il professore: “Non è la nostra guerra. È la loro guerra. Ci coinvolge, ma è per l’egemonia in Medioriente. È l’ultimo episodio di una lunga catena per l’egemonia: nel deserto siriano c’è il cuore del mondo musulmano. Sono fra 1,3-1,5 miliardi di persone. Il problema è che noi occidentali ci sentiamo sempre al centro di tutto. Nel bene e nel male. In questo caso – ma già da vario tempo – noi non siamo più i protagonisti in Medioriente. Vi sono molte forze, Stati e non, che si stanno contendendo per interposta persona l’egemonia in Medioriente per il controllo di una grande civiltà. Questa non è la prima volta che accade nella storia islamica. Siamo coinvolti per tantissimi motivi e quello economico è il meno importante. Ci sono ragioni storiche: non dimentichiamo che abbiamo disegnato i confini di quelle terre, ci abbiam messo del nostro. Poi siamo coinvolti per la vicinanza. Insomma, tutto sta nel capire i limiti di intervento dell’Occidente. Daesh non è uno stato rivoluzionario. Non sono d’accordo con la visione di un certo mondo Usa che mette tutto sulla geopolitica con noi occidentali al centro. Tutte le guerre che abbiamo fatto in Medioriente sono fallite: le abbiam fatte senza risultati. La mancanza di intervento di Obama la si spiega con questi fallimenti. Ogni volta che siamo intervenuti, abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che non avevamo tutte le carte in mano per arrivare dove pensavamo. In quel terreno altri erano i protagonisti e noi rischiavamo di restare in trappola. Non siamo nemmeno riusciti a imporre la pace. Forse la pace armata, ma non la pace. Dobbiamo essere molto modesti e umili davanti al Medioriente, perché là si stanno combattendo forze molto potenti. Nessuno in Occidente ha la forza militare, che non ci possiamo permettere per motivi umanitari, per fare un deserto totale. Non è la nostra guerra. Non siamo noi le prime vittime. Tutti i morti in Siria lo dicono. È una guerra tra varie forze e sullo sfondo c’è l’odio tra sunniti e sciiti. Poi ci sono le implicazione internazionali. Turchia, Egitto, Arabia Saudita, stati ricchi del Golfo, tutti vogliono dire la propria e finché non la potranno dire politicamente si combatteranno o faranno in modo che qualunque altra sistemazione fallisca. Sono legittime queste aspirazioni? La Turchia ha i propri interessi, l’Iran sciita ha i suoi, l’Egitto, il Qatar, tutti. Finché questi attori non saranno seduti intorno a un tavolo non ci sarà pace. La politica del governo italiano è sempre stata improntata sulla convinzione che la soluzione è fatta da chi è il problema. I russi sono alleati della Siria dagli anni Sessanta, è il loro modo per essere presenti in Medioriente, da dove puoi governare tutto il mondo islamico. Dato fondamentale. Per questo c’è questa guerra e tutti vogliono fare questa politica. Ogni stato ha i suoi legittimi interessi e li esprime in un certo modo. Daesh è l ultimo prodotto”.

Poi la riflessione di Giro si concentra sui foreign fighters, i giovani nati e cresciuti in Occidente che vanno a combattere in Medioriente, argomento sul quale ha scritto tre libri. “I ragazzi che lasciano le banliue parigine per raggiungere la Siria, o i marocchini che si sacrificano per gli attentati in Spagna o gli ingegneri arabi e pakistani che hanno attaccato la metro di Londra perché si danno al male? Dagli anni Novanta a oggi sono molti questi fenomeni di solidarietà negativa. Si sono passati la fiaccola del terrorismo. Da allora quasi tutti sono morti e pochi sono in carcere. Sono nati prima che esistesse Al Qaeda. La guerra in Bosnia ha attirato molti combattenti. Per non parlare della guerra d’Algeria del 1992-’97 che ha fatto 150mila morti. Quella sì che ha avuto ripercussioni anche in Francia con molti attentati. E che dire della guerra in Afghanistan e in Medioriente? Questi gruppi sono cresciuti, si sono trasformati, hanno litigato fra loro, si sono distinti sulle strategie fino ad arrivare a Daesh, che ci preoccupa perché controlla un pezzo di territorio con 8milioni di persone. Di per sé non è granché davanti all’esercito occidentale, ma esprime il malessere di un’intera popolazione. Daesh ha riempito il vuoto politico in Iraq e Siria.
Che sia una trappola è certo. Come intervenire? Non possiamo sostituirci ai protagonisti veri. Prima dobbiamo metterci d’accordo su quello che avverrà dopo. Come dice Renzi e come diceva prima Letta. Per mettersi d’accordo sul dopo, bisogna prendere in considerazione l’interesse di tutti gli altri.
I sunniti d’Iraq sono il 40 percento della popolazione, si sentono attanagliati a nord dai curdi e a sud dagli sciiti. Hanno governato male l’Iraq per molte decine di anni con Saddam usando il pugno di ferro. Ma anche se in minoranza sono milioni e si preoccupano della loro sopravvivenza. Da qui la forza di Daesh, cricca costituita da ex militari di Saddam unitisi ai loro ex nemici ossia i fondamentalisti islamici iracheni che Saddam ha sempre combattuto. Erano nemici, ma ora sono amici contro un nemico comune. La differenza con al-Qaeda? Al-Qaeda è una setta segreta mentre Daesh accetta tutti e cerca di fare proseliti rivolgendosi agli spiriti fragili che vivono in occidente. Parla in inglese e offre un prodotto totalitario. Ma qui non siamo davanti a una rivoluzione, perché Daesh non vuole cambiare una situazione, bensì la natura stessa dell’uomo. Qui siamo di fronte a un totalitarismo che si serve della teologia, interpretandola come meglio gli fa comodo. Usa elementi religiosi mischiandoli ai rottami post ideologici occidentali. E mastica il nostro linguaggio. Per questo ha presa. Venite a combattere nella terra libera dell’Islam. La democrazia è falsa, in realtà è la democrazia delle banche. Il jihad è la vera risposta alla depressione. E i ragazzi senza spirito critico intrisi di cultura del sospetto, di antipolitica, di disprezzo per tutto, cresciuti in grigi ghetti ci cascano. Daesh dà proposte semplici colmando il vuoto che si è creato in Occidente. Disumanizza il nemico proprio come il nazifascismo disumanizzò l’ebreo. Basta pensarci e a ognuno di noi viene in mente qualcuno così, qualche adolescente in crisi d’identità. Abbiamo un’ottantina di combattenti partiti dall’Italia, fra i quali tre italiani. Dalla Francia ne son partiti 3000. È in atto un processo di radicalizzazione. Noi italiani non abbiamo il diritto di esser colti di sorpresa. Siamo il paese europeo che ha avuto il più forte terrorismo interno che ha diffuso la disumanizzazione del nemico. E poi le mafie e quella cultura dell’omertà e dell’assenza dello Stato che crea la zona grigia. Nei quartieri francesi dove nessuno entra, gli abitanti si coprono a vicenda dando vita a una solidarietà negativa. Questo processo noi italiani lo conosciamo benissimo, perché è il processo delle mafie. Quindi non dobbiamo farci sorprendere dal prodotto della solidarietà negativa. Dobbiamo evitare la nascita di ghetti ed eviteremo il lievitare di questi piccoli mostri che possono fare molto male e di cui Daesh si nutre. Tenere d’occhio la coesione sociale è il primo passo. Stiamo attenti a non creare nessuna zona grigia nelle nostre città. Per la nostra sicurezza. Il dialogo e i ponti di trasmissione sempre aperti con ogni zona della nostra città sono l’antidoto”.

A questo punto, il professore, tirato in causa in più di un riferimento, risponde per le rime: “Giro dice È una guerra per l’egemonia in medioriente. In realtà quella che è in corso si sviluppa su tre livelli. Primo livello: È una guerra intraislamica, in cui si staglia il conflitto ultramillenario fra sciiti e sunniti. Ciò che succede sul campo è influenzato anche da quello che avviene nel mondo sunnita e da quello che avviene fra le varie tribù. Secondo livello: conflitto internazionale. Le potenze regionali sono tre più una: Iran, Turchia (potenze imperiali) e Israele, e poi Arabia Saudita, potenza fragile sia demograficamente che a livello territoriale. A questo secondo livello c’è uno scontro tradizionale fra potenze che si battono per il dominio in quella regione. Terzo livello: conflitto per l’interesse globale. Usa, Russia (con precisi interessi) e Cina. Poi Qatar e Stati del Golfo. In questo quadro complesso, soluzioni semplici di breve periodo non ci sono”.

Quindi Bozzo fa un ulteriore riferimento a Giro. “Il sottosegretario dice È una guerra per l’egemonia in Medioriente, ma non è la nostra guerra. E io qui vorrei precisare: le guerre sono come le fidanzate, mica si scelgono, sono loro che scelgono noi. Ti puoi anche disinteressare della guerra, ma la guerra si occuperà di te. Non è la mia guerra, ma siamo coinvolti. Dice il sottosegretario. Ma il nemico che ci considera nemici c’è. Ho visto decapitazioni, crocifissioni, genocidi, stupri, teste mozzate, prigionieri, fosse comuni, gente sgozzata. Qui si tratta di nazismo islamico. E per me è un nemico da combattere perché i disvalori di quell’ideologia non sono compatibili con i miei. C’è uno scontro di civiltà? Certo c’è. Io difendo la mia civiltà. Se il nemico c’è, c’è la guerra. Io gli equilibrismi della politica li rispetto. Ma la guerra c’è. Ci sono migliaia di morti. C’è chi uccide. C’è una guerra e mi spiace dirvelo. È un totalitarismo frutto di una rivoluzione. Col nazismo non si negozia. I risultati dei tentativi li conosciamo. Il nostro nemico vuole la guerra. Ha una concezione universalistica. Andatevi a vedere Dabiq, giornale online islamico e poi ne riparliamo. E per quanto riguarda la rivalità russo-turca che dire? È scritta nella storia, nella geografia e anche nell’economia. La storia è frutto della geopolitica. Detto questo, la situazione attuale è persino peggiore di quanto si può immaginare. I due leader di queste due potenze di tradizione imperiale sono due maschi alfa e quando si trovano a confronto si mette male. Per analizzare le evoluzioni politiche non scordiamo mai di guardare le leadership. Il sistema internazionale è in condizione di transizione caotica dovuta al fatto che fra l’89 e il 91 c’è stato un cataclisma geopolitico. Ha ceduto di botto un ordine che aveva mantenuto la stabilità internazionale e che non viene sostituito da nessuna nuova forma d’ordine. Stante a tutto questo, la crisi che stiamo vivendo fra turchi e russi è pericolosissima.
Cosa fare per la pace? Creare un nuovo ordine mondiale? Non credo sarà possibile. Forse succederà fra qualche decennio, ma non nel medio periodo.
I confini? La storia insegna che i confini non si cambiano a tavolino. Si cambiano quando dato un certo status territoriale consolidato a seguito di prove di forza si riesce a mettere intorno a un tavolo vincitori e vinti. E i vincitori disegnano i nuovi confini.

A questo punto il sottosegretario alza i toni del disappunto. “È un guerra contro l’Islam? No non lo è. È una guerra che si svolge dentro l’Islam, ma non è una guerra di civiltà. Le prime vittime sono loro, gli islamici. Il principale nemico di Daesh è l’islam moderato. Oggi l’Islam produce questo mostro ed è lui la prima vittima. L’Islam non è il problema. Cerchiamo di capire. I rifugiati che scappano via Balcani sono la miglior prova di questo: scappa la classe media. I gruppi jihadisti vogliono farci credere che l’Islam è con loro, ma non è così. Vogliono mostrare un’intera civiltà come se fosse controllata da loro e come se fosse nemica. E non dimentichiamo che i fondamentalismi sono propri di ogni civiltà.
Fra Russia e Turchia? Si guardano in cagnesco dalla guerra di Crimea. La cosa non piace al governo italiano che ha buoni rapporti anche con la Russia. Anzi, l’unica cosa che abbia mai unito Prodi e Berlusconi era la volontà di far entrare la Turchia in Europa. Comunque torno a ripetermi che la sfida è per la civiltà musulmana, per i musulmani è mortale. Sono nemici anche nostri, ma è principalmente una guerra dentro l’Islam. Rimanere lucidi nel leggere i fenomeni che squassano il mondo musulmano dall’interno è importante. Occorre trovare un alleato interno e aiutarli. Le guerre non risolvono. Nessuno più vince le guerre. La risposta guerra è superficiale e provoca altri mostri. La fornace siriana va spenta. Sono esperto in mediazioni internazionali e so cosa significa provare ad abbassare l’intensità dello scontro militare.
La guerra è obsoleta e senza politica non serve. Stiamo costruendo la politica pian piano. Ci vogliono russi, arabi, iraniani e turchi al tavolo. Aggiungere un po’ di aerei come ha fatto l’Inghilterra non serve, peggiora. La politica ha l’obbligo di trovare le risposte. Lo scontro di civiltà è un’invenzione, penso che sia suicida. Non ci hanno dichiarato guerra tutti i musulmani. Il nostro totalitarismo lo abbiamo sconfitto facendoci una guerra interna. Non è creando panico e aumentando la cultura del disprezzo nella società che si risolve. Russi e turchi si devono parlare perché hanno interessi in Siria. Quindi dovranno farlo”.

E sul ruolo dell’Italia? chiedono dal pubblico. “In politica internazionale l’Italia deve aprire l’ombrello e sperare che il temporale passi – spiega il professore -. Non siamo in grado di avere un peso, a prescindere da chi è il presidente di turno”. Poi però torna sulle divergenze interpretative e sottolinea: “Insisto nel dire che nell’Islam ci sono valori non compatibili con la nostra civiltà. L’apostasia è reato punibile con pena di morte. Anche in Giordania. La separazione fra Stato e sfera religiosa non esiste nel mondo islamico. Il corano è fonte di legge. Lo scontro c’è, ma non voglio certo andare in guerra contro un miliardo e mezzo di islamici. Alcuni valori non sono negoziabili”.

E Giro ribatte: “Il problema del convivere ce l’abbiamo sempre avuto con civiltà diverse. Per saperne d’Islam bisogna averci lavorato decenni. Quella del professore è un’analisi superficiale. L’Islam è tutto e il contrario di tutto. È inespugnabile e incomprensibile. Come fare a convivere? Un euro per la cultura ogni euro speso per la sicurezza. Ecco come si rafforza la sicurezza interna del Paese. E l’Italia deve muoversi con una lenta tessitura dei rapporti. Abbiam bisogno del consenso. Fermi e calmi. Non indietreggiamo. Smettiamola di essere così aggressivi. È nell’aggressività che si crea lo spazio grigio di solidarietà negativa di cui sopra. Inutile gridare contro l’Islam: è l’Islam che si deve riformare, con forza e umiltà. Gli stessi sentimenti con cui i nostri padri sono usciti dalla II guerra mondiale. Se siamo riusciti noi possono riuscirci anche i musulmani”.

Ma il professore non demorde. “Il 75 percento dei morti in questa guerra sono cristiani. Secondo dati Onu. Il fondamentalismo e il radicalismo islamici hanno tragicamente accresciuto l’emergenza planetaria. L’Islam è da sempre religione di conquista. Non esiste un islam monolitico, d’accordo, ma ci sono pezzi di quell’Islam che non sono compatibili col nostro modo di vedere occidentale. Ecco io rifiuto questo pezzo di islam che corrisponde a buona parte delle organizzazioni politiche del Medioriente”.