C’è un luogo che più di ogni altro racconta la storia della città di Prato degli ultimi anni. Ma non quella che si legge sui giornali o si vede in televisione, e nemmeno quella raccontata dalla politica, di qualsiasi tipo essa sia. E’ un luogo qualunque, sul ciglio di Chinatown, che da solo è capace di spiegare molte cose di Prato oggi. La gloria di un tempo finita in maceria, gli umori diversi che vi si muovono sottotraccia e l’intatta grandezza di uno spazio piegato alla produttività di cui adesso rimane solo lo scheletro, in attesa che qualcuno o qualcosa torni a donargli uno scopo.

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2015

1. Fuochi

L’ex rifinizione Vannucchi in via Damiano Chiesa, sul limitare di Chinatown, è bruciata la notte di Natale del 2014. All’inizio si è pensato che le fiamme fossero state causate da un falò acceso dai due stranieri che vi dormivano. Gli inquirenti però, riporta il Tirreno, hanno appurato che sono stati ben tre i punti dai quali le fiamme sono divampate. Un incendio doloso come quelli di cui sono piene le cronache pratesi degli ultimi quarant’anni.

La vecchia fabbrica, un tempo sede della Rifinizione Vannucchi, chiusa da una decina di anni, è da tempo al centro dell’attenzione e delle proteste dei residenti della zona perché spesso abitata da senzatetto — riporta il Tirreno — L’edificio industriale di proprietà dalla famiglia Vannucchi non è entrato nel fallimento dell’attività decretato nel 2008, dopo un tentativo andato male di concordato nel quale invece è entrata la villa di famiglia che dista poche decine di metri dall’ex capannone. I muri della fabbrica sono ancora di proprietà della famiglia Vannucchi”.

– Stai attento a dove metti i piedi — dice il mio accompagnatore avvicinandosi all’ingresso sul retro della fabbrica. E’ stato tutto il tempo al telefono discutendo di jogging. Che non è una cosa che si sposi molto al suo aspetto da squatter barbuto di un metro e 90 che fa l’artista, che disegna su qualsiasi supporto ma che di fatto predilige l’arte di strada. — Mi piace tenermi in forma — si spiega — da ragazzino facevo il ciclista. Lo guardo senza dire niente e lo seguo dentro, mentre un cinese svolta l’angolo spingendo un carrello pieno di bottiglie d’acqua.

Di fronte a noi il locale lungo circa trenta metri porta ancora le impronte lasciate dalle fiamme, sulle pareti e sui vetri dei finestroni ancora integri: i vigili del fuoco son arrivati in tempo.

vannucchi 2015-1C’è un silenzio irreale dentro un edificio andato a fuoco. E’ quello che vedi che lo fa sembrare così: devastazione e annientamento amplificano le impressioni. E’ un luogo morto nei cui angoli, a distanza di mesi, si trovano ancora i resti di quel pasto letale, neri grumi di materia irriconoscibile ammassati accanto a ruote di bicicletta, sedie e mobili scampati all’incendio oppure arrivati più tardi per mano di chissà chi. L’odore invece, almeno l’odore ci viene risparmiato.

Si cammina in punta di piedi come per paura di risvegliare qualcosa. E’ il silenzio e la distruzione, e il nero. Il nero dice tutto senza bisogno di dettaglio, è una convenzione universale, e a Prato lo è per molte cose. I piccioni tubano nascosti da qualche parte. Il rumore del traffico della strada rimbalza sui muri.

Il locale bruciato è collegato a un altro, appena lambito dal fuoco e quindi intatto nel proprio abbandono. Una porta scardinata ci fa deviare e di punto in bianco ci ritroviamo in mezzo ai resti delle storie che tra queste mura si sono consumate.

— L’hanno distrutta — fa il mio accompagnatore rompendo il silenzio e indicando l’altro capo dello stanzone.

ex-rifinizione-vannucchi-2E’ rimasto zitto fino a quel momento, alle prese con quello che io ho reputato una sorta di rispetto per il luogo e per me che lo visitavo per la prima volta.

— Era laggiù, davanti all’entrata  — aggiunge —  esattamente in mezzo a quelle due semi pareti perpendicolari.

Chiedo cosa, anche se so conosco già la risposta.

-La sedia e l’installazione che avevo fatto notte dopo notte — spiega — Ti dovevi mettere a sedere sulla sedia e contemplare la costruzione in questo contesto.

Non c’è alcuna tristezza in quello che dice. La possibilità, anzi la quasi certezza che un’installazione di oggetti di scarto come la sua venga distrutta dopo poche ore dalla creazione è quasi scontata. L’avrei voluta vedere però. E’ un’arte effimera questa, come effimeri sono i luoghi dove germoglia.

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2. L’età di mezzo

Nell’immaginario di un uomo cresciuto negli anni Ottanta esistono innumerevoli riferimenti a grandi edifici abbandonati, a fabbriche collassate su stesse, a interi complessi residenziali sgretolati dal tempo e dall’incuria. Il cinema, la letteratura e la musica degli ultimi quarant’anni è piena di affreschi dell’abbandono e così è difficile non avere già in testa un’idea di quello che ti aspetta entrando in una fabbrica abbandonata a Prato nel 2015.

Ed è questo che ti frega. Perché se i riferimenti sono gli stessi, e cioè che in tutto il mondo luoghi come questo sono stati e sono tuttora espressione di una situazione ben precisa, chiamiamola crisi di qualche tipo, questo non significa che siano luoghi identici tra loro. Questi luoghi e questi spazi raccontano le stesse cose in modo diverso, ed ecco che il degrado e la marginalità dei loro frequentatori, la miseria e la violenza che molto spesso ospitano e gli umori che vi vengono a finire si colorano dei tratti tipici della città d’appartenenza.

Aggirarsi tra queste mura che mani frettolose hanno smantellato e che altre hanno trasformato ancora disperdendone gli ultimi tratti coerenti, lascia interdetti e affascinati. E’ qui, ci si rende conto, che si nasconde non solo simbolicamente il decadimento dell’immaginario collettivo di un’intera città.

Muri che hanno retto la gloria di Prato, registrato il canto delle macchine che non si fermano mai, l’alternarsi dei colori nelle pezze, la fame di ricchezza e la soddisfazione profumata del lusso. E che adesso fanno finta di non registrare più niente e vivono questa loro età di mezzo trasmettendo in filodiffusione un identico, perenne lamento.

ex-rifinizione-vannucchi-4Se si chiede oggi quanti siano a Prato gli ex edifici industriali vuoti, di fatto abbandonati, ti viene risposto che non esistono stime certe ma che più o meno si tratterebbe di un milione di metri quadrati. Così almeno dicono all’ufficio urbanistica, da dove però fanno presente che verrà effettuato un censimento di questi spazi durante lo studio del nuovo piano regolatore.

Un milione (circa) di metri quadrati sono un chilometro quadrato. Sono poco meno della superficie di piazza Mercatale moltiplicata per trenta volte, oppure, giusto per prendere un riferimento prestigioso, poco meno di quella di Trafalgar Square moltiplicata per cento volte. Poco più dell’un per cento di tutta la città di Prato (97,35 km quadrati). Spazi spariti dalla coscienza della città.

L’unica indicazione ufficiale sulle dimensioni di questo vuoto è datato 2008. Uno studio lungo un anno viene presentato come la “prima catalogazione completa di tutto il patrimonio industriale e produttivo esistente” (4/3/2008 — Comune di Prato). E’ un lavoro che secondo l’allora assessore all’urbanistica Stefano Ciuoffo (adesso assessore regionale al turismo) vuole costituire una “delle basi fondamentali per la formazione del nuovo Piano Strutturale, ma anche il punto di partenza per aprire il confronto con la città” (idem).

Vengono dati dei numeri.

4.430.000 sono i metri quadrati della superficie coperta complessiva degli edifici produttivi pratesi. Di questi, 1.698.000 metri quadrati (non comprende i macrolotti, le lottizzazioni artigianali e le aree della mixitè) possono essere riutilizzabili con nuove destinazioni d’uso, mentre sono 868.000 i metri quadrati utilizzabili immediatamente per fini abitativi.

Nel computo vengono individuati 752 ex edifici industriali, categorizzati per valore e interesse storico, archeologico e architettonico. Conviene leggere, perché in questi numeri c’è una grossa parte del potenziale inespresso dalla città di Prato. Una città fatta di spazi che cercano nuova vita.

19  edifici di elevato interesse storico-archeologico destinati a restauro o risanamento conservativo per servizi, terziario, commerciale. 28  edifici di elevato interesse architettonico e tipologico destinati a ristrutturazione per servizi, terziario, commerciale con una quota residenziale. 186 capannoni industriali con impianto seriale (le fabbriche a schiera) da ristrutturare o ritrasformare solo in residenziale o servizi con una quota di residenziale. 140  edifici con impianto di interesse morfologico (via Pistoiese o via Rossini nel Macrolotto Zero) destinati a ristrutturazione pesante, demolizione, ricostruzione e sostituzione edilizia. 379  edifici di modesto interesse edilizio-urbanistico destinati a edilizia con funzioni nuove.

Questo ragionamento sul riuso degli edifici industriali anelato nel 2008 è rimasto però sottotraccia, annichilito dalla crisi, da “Prato non deve chiudere” e da un impoverimento cui i pratesi non avevano mai pensato in vita loro. Ma a ben guardare, Prato ha solo perso tempo. Non era solo il tessile ma questi edifici, dove il tessile ha potuto diventare quello che è diventato, l’oro vero della città. Sono i capannoni l’unica, tangibile costante di questo pezzo di Toscana ormai congestionato tra i monti e Firenze. Lo sono stati nel bene e nel male in passato, nel tessile come nell’urbanistica, e sarà ancora una volta nei loro volumi che Prato dovrà cercare il proprio futuro.

3. Cadute

Ci aggiriamo tra le macerie come vagabondi. Abbandonati contro il muro e buttati in terra, strappati, ci sono alcuni cartelloni pubblicitari. Sono l’unica cosa nitida e lucida, riconducibile a qualcosa di conosciuto dell’intero locale. C’è un ragazzo con un giubbotto di pelle seduto sul cofano di un’auto che guarda una ragazza, i capelli chiari e corti, che dà la schiena al fotografo. Messi così, spiccano irreali tra le macerie e sembra si siano dati appuntamento proprio in questo capannone.

ex-rifinizione-vannucchi-5All’improvviso, più avanti, sentiamo dei rumori. Il mio accompagnatore è a venti metri da me. Un uomo spunta da un’entrata laterale in sella a una bicicletta e dice in un italiano stentato — Non fare la foto eh. Un magrebino dall’età indefinibile. Il mio accompagnatore lo rassicura e quello, compiuti un paio di slalom tra i rifiuti, se ne va uscendo alla luce del sole.

Quando riprendiamo la perlustrazione e abbassiamo gli occhi, scopriamo altri cartelloni pubblicitari. Non sono a colori, questi. Sono dettagli in bianco e nero: un paio d’occhiali, una borsa, una camicia e un paio di pantaloni con l’etichetta in bella vista. E quell’etichetta recita “Sasch”.

ex-rifinizione-vannucchi-6‘Sasch’ è una parola che evoca i tratti dell’ex sindaco Roberto Cenni e gli estremi della sua ascesa e soprattutto della sua caduta politica e imprenditoriale. A ben guardare, la vicenda Sasch segna per Prato la fine del mito tessile e imprenditoriale, di un’era considerata irripetibile in cui la città si ergeva agli occhi dei nostalgici splendente e unica. Segna la fine di un’età moderna tirata fino all’implosione e il passaggio a un’età contemporanea ancora lontana dall’essere accettata nella sua normale complessità.

“Per me e per tutti quelli come me luoghi come questo sono perfetti — spiega il mio accompagnatore, il cui nome d’arte è Mo, Moallaseconda. — Qui dentro ci sono almeno tre firme diverse — continua, allungando un braccio — tra cui anche uno che ha cominciato da poco, che fa pattern e li appiccica alle pareti”.

ex-rifinizione-vannucchi-7Guardo i pattern colorati e ipnotici e decido che mi piacciono. Quello che non dice, il mio interlocutore, è perché ama decorare questi luoghi. Ma non credo sia una rivelazione necessaria, come non credo, tra l’altro, che la parola “decorare” sia corretta. In luoghi come questo s’annidano da sempre le espressioni di una protesta che vaga sottotraccia in qualsiasi città del mondo: cambiano le forme e i fini, rimane la rivendicazione. Come questi ghirigori complessi, liquidi e densi, che sembrerebbero colati dall’alto se solo la parete che li ospita fosse il pavimento. Invece è una parete, cioè perpendicolare al pavimento. Insomma, è una cosa complessa anche se sembra semplice.

ex-rifinizione-vannucchi-8– Abbiamo bisogno di spazi — dice — pensa a quanti capannoni ci sono a Prato, pensa se qualcuno dei loro proprietari ci permettesse di esprimerci come vogliamo. Parla al plurale ma in realtà non si fa portavoce di nessun altro, o almeno così sembra. Guardando meglio nella forzata reiterazione di questo vuoto, le sue parole sembrano sensate. Almeno si eviterebbe la scomparsa di questi spazi dagli occhi dei pratesi, così come hanno fatto le macchine divelte dal pavimento e volate, queste sì per davvero, chissà in quale capannone asiatico o africano. Almeno, viene da dire, avrebbero un’identità, anche se temporanea; sicuramente un colore, anche se sensibile alle intemperie. Direbbero qualcosa di nuovo, che è quanto di più bello si possa augurare a un edificio abbandonato.

C’è una città nella città a Prato. Una è quella che vediamo tutti i giorni, fatta dei luoghi che frequentiamo o degli scorci che intercettiamo percorrendola in auto o a piedi; l’altra è qui dentro, tra queste quattro mura moltiplicate per mille, ed è qui che si scuote invisibile la Prato di oggi e quella che vuol essere la Prato di domani.

4. Secondo piano all’inferno

-Cosa c’è di sopra?
-Non lo so, non ci sono mai stato.

Stavamo per andarcene e siamo incappati nelle scale, un tunnel nero di fuoco appiccicato alle pareti che sembra incastonato in un’intercapedine tra i due locali. Fuori intanto è cambiato il sole, c’è foschia e intorno a noi ci sono ombre che s’allungano.

Saliamo piano e in silenzio, un po’ intimoriti, come se entrassimo in un luogo che non vede essere umani da decenni. C’è un silenzio irreale e non fa per niente caldo.

Quando arriviamo in cima s’apre di fronte a noi un enorme piano inondato di luce e libero da macerie. Ci fermiamo un attimo, stupiti dalla sostanziale normalità del piano superiore rispetto a quello sottostante. Forse è questo che ci mette a disagio, insieme alla luce e al silenzio. In realtà, sono le tende. Perché sono azzurre, di un azzurro molto bello, e perché sbattono pigre al vento che entra dalle vetrate. Proprio come quando usciamo di casa e dimenticandoci di chiudere le finestre. Flapflap, fanno le tende, e c’è solo il loro rumore. Il tempo sembra essersi fermato al giorno dopo il trasloco.

ex-rifinizione-vannucchi-9Ci muoviamo piano, parlando il meno possibile. La testa di un ventilatore attira la nostra attenzione: è azzurra anche quella. Sui muri scrostati, sotto il grigio dominante, s’intuisce una mano di tintura precedente, azzurra pure quella. È fastidioso questo azzurro, è ovunque, anche sui bidoni sparsi qua e là, e non se ne capisce il motivo.

ex-rifinizione-vannucchi-10L’abbandono dell’edificio ha lasciato dietro di sé molte cose. Sparsi qua e là attirano la nostra attenzione bidoni e sezioni di bidoni azzurri, scaldabagni, monitor di computer, sedie da ufficio, un bancone da lavoro, tavoli, portelli, un mucchio di quelli che sembrano torsoli di pannocchia ma che invece sono, ci verrà spiegato in seguito, garzo vegetale, lo strumento derivato dai fiori di cardo con cui veniva effettuata la garzatura, ovvero la spazzolatura applicata ai tessuti pregiati per sollevarne il pelo e aumentarne le proprietà isolanti.

ex-rifinizione-vannucchi-11– C’è qualcuno? – chiedo ad alta voce, d’istinto.

Nessuna risposta.

Ci sono alcune stanze dietro la scala d’accesso. Probabilmente erano i vecchi spogliatoi, le porte sono aperte per metà. Di fronte, un tavolo pieno cibo abbandonato, involucri di yogurt vuoti, un paio d’occhiali da sole, un forcone e scarpe. Scarpe da tutte le parti. Quella che una volta era una fabbrica, adesso è diventata un’abitazione di fortuna. Un tetto bello solido sotto cui ripararsi, con tanto spazio e un margine di sicurezza abbastanza ampio per dimenticarsi che qualcuno possa venire a disturbare. Ci avviciniamo.

ex-rifinizione-vannucchi-12Due biciclette e una panca, i cartoni alle finestre, una sorta di straccio buttato lì come una coperta. Una stanza improvvisata, due metri quadrati di spazio vitale occupati nel Macrolotto zero. La capacità di adattamento fa impressione, ma l’impressione svanisce presto. Non c’entra niente con la capacità di adattamento, parla invece di una condizione forzata, necessaria, parla di fame e di vicoli ciechi. Nella camera accanto hanno fatto ancora meglio.

ex-rifinizione-vannucchi-13Forse ci abitano da più tempo, tutto è molto più organizzato. Ci sono alcuni pancali e sopra i pancali dei materassi portati da chissà dove. Uno accanto all’altro, stretti stretti, con lenzuola e coperte. C’è un tappetino di pelo in fondo ai letti: sembra di intrufolarsi in casa di qualcuno. E’ un dettaglio che fa male, c’è un sentimento simile all’amore in quel tappeto, una ricerca di normalità, di piccoli dettagli che fanno bene al cuore e alla speranza. Forse è un’esagerazione, ma questa camera da letto è viva, pulsante. È difficile non rimanere a contemplarla un po’.

Gli spazi abbandonati o semplicemente vuoti diventano ovunque la casa di chi una casa non se la può permettere: emarginati, clandestini, tossici. E se ci aggiungiamo il fatto che siamo anche a Chinatown, forse comprendiamo un’evoluzione di questa dinamica. Questa è la zona che lasciata vuota dai pratesi ha trovato nuovi occupanti arrivati solo per lavorare e lavorare e lavorare, proprio come prima di loro hanno fatto i vecchi pratesi. Senza orari e senza attenzioni, a testa bassa, col ghigno e il sudore di giorno e di notte.

La verità è che questi luoghi dovrebbero essere chiusi, il loro ingresso interdetto, blindato. E invece non succede mai, o comunque succede che vengano aperti dopo qualche tempo e rimessi a disposizione di ombre in cerca di un tetto e di altre necessità. La cosa si complica con il tempo, quando questi edifici cominciano ad accusare l’incuria e diventano anche pericolosi, oltre che fatiscenti. Il proprietario dell’immobile dovrebbe averne cura facendo di tutto perché non cada in testa alla gente. Invece succede di rado. A Prato, per esempio, siamo circondati da capannoni abbandonati che cadono a pezzi e in cui si può accedere liberamente. E’ solo una constatazione e la conferma che anche agli occhi dei proprietari questi capannoni non esistono più, una volta persa la funzione mantenuta per tanto tempo. Eppure basterebbe un po’ di fantasia, qualche quattrino e un po’ di volontà per occuparli nuovamente o anche solo per farne qualcosa che non venga additata come fonte di degrado per un quartiere e una città intera. E invece no. E le cose sono messe anche peggio di così. Se un capannone (o un qualsiasi altro edificio) cade a pezzi, il Comune può e deve intervenire. Ma come spiega l’attuale assessore all’urbanistica Valerio Barberis si cerca di non procedere in modo formale.

-Nel caso un edificio cada a pezzi contattiamo il proprietario e cerchiamo di convincerlo a intervenire — spiega Barberis— Il Comune potrebbe poi emettere un’ordinanza per far mettere in sicurezza l’edificio ma cerchiamo di non arrivare mai a questo punto perché se il proprietario non dovesse eseguire le richieste dell’ordinanza, dopo un certo periodo di tempo, il Comune sarebbe tenuto in modo automatico a confiscare l’edificio e a intervenire in prima persona, con tutti i costi che ne deriverebbero. Quindi, quando vi trovate di fronte un capannone abbandonato e inorridite per le condizioni in cui s’erge tutto grigio tra le case, probabilmente vi trovate di fronte a un caso del genere. E dovete pensare al proprietario di quel capannone.

In questo quartiere si gioca molto della Prato del futuro. Da una parte i luoghi di un’urbanistica impazzita da ripensare e trasformare; dall’altra, conficcata lì nel mezzo, la compatta comunità cinese e tutte le difficoltà che la loro presenza comporta. Fa sorridere il parallelo cinesi-pratesi: un paragone abusato ma mai preso davvero in considerazione, forse perché la sua pertinenza alla leggenda del tessile pratese viene percepita da molti come un incubo.

ex-rifinizione-vannucchi-14Ci sono vestiti ovunque. Nei bagni della fabbrica, in fondo al grande primo piano disadorno dove le tende battono al vento, non ha avuto alcuna importanza l’abbandono. I bagni hanno continuato a svolgere la propria funzione anche per chi è arrivato dopo, di nascosto, e ha costruito il proprio giaciglio pezzo dopo pezzo dall’altro capo del locale. Scarpe, mutande, pantaloni e magliette. Scarpe ovunque. Come se fosse stato quello il luogo di rapide prove d’abito e di defecazioni incontenibili. Eppure, nello squallore generale, il fatto di trovare le feci là dove devono essere è una sorta di rassicurazione, è un attaccamento alla convenzione della civiltà che fa ancora più male. Scattiamo qualche foto, a disagio. Sembra di entrare nella parte più intima di questa enorme casa improvvisata al centro della città.

5. Fuori, sul tetto

Ci imbattiamo in alcuni bidoni di metallo, dai quali sono fuoriusciti liquami dal sinistro colore giallastro. Sul fianco dei bidoni c’è il simbolo di una nota azienda di benzina. Li aggiriamo e usciamo sul tetto.

ex-rifinizione-vannucchi-15Qualcuno ha portato lassù anche una bicicletta. E’ la prima cosa che notiamo, appoggiata alle scalette di metallo che portano alla piattaforma dalla quale si accede al tetto vero e proprio. Siamo fuori, alla luce, e il vento fa sbattere brandelli di coperture che la bufera del marzo scorso ha provato a strappare senza riuscirci del tutto. Siamo circondati da eternit e catrame, il cielo è azzurro, accecante.

Dormono anche qui. In alto, sulla piccola piattaforma di metallo, c’è un piumone rosa che forse una volta è stato rosso. Intorno, un paio di pantaloni e una maglietta giacciono sulla gobba del tetto ricoperto di catrame o quel che è, come se fossero stati lanciati lontani in preda alla rabbia o alla disperazione.

Rimaniamo a fissare il quadro. La luce è accecante, siamo in vetta a Chinatown, al Macrolotto Zero. Da qui non si vede niente, non c’è orizzonte, non ci sono speranze.

2016

 

6. Il futuro è già qui?

L’apertura di ‘Chì-Na’ sembra aver messo in moto qualcosa. Fino a quel momento, l’archeologia industriale pratese non era stata toccata dalla primavera commerciale che all’inizio del 2015 aveva dato il via all’apertura di decine di nuovi locali. Poi, nel mese di luglio, il cuore di Chinatown registra la comparsa di qualcosa di nuovo. Una neonata associazione culturale prende possesso di una vecchia fabbrica in disuso e la trasforma in uno spazio polivalente, un po’ coworking, un po’ galleria, un po’ locale. Tutto molto curato, un occhio al design, la barra dritta sul buon gusto. E’ un segnale piccolo piccolo, ma non può passare inosservato: dopo anni di stasi qualcuno sembra aver rimesso a fuoco questi spazi e alzato finalmente il tiro sul riutilizzo commerciale dei loro volumi.

ex-rifinizione-vannucchi-18Il movimento, comunque, era nell’aria da tempo. Un’officina meccanica chiusa da un decennio aveva infatti ospitato qualche tempo prima Tuscan Art Industry (TAI), una mostra organizzata a sua volta da Studio Corte 17. Quel “corte”, tra l’altro, sta per corte di via Genova, sede di uno dei primi e più longevi esperimenti nel riutilizzo di vecchie strutture industriali in città. E il movimento diventerà ancora più chiaro, addirittura istituzionalizzato quando, sul finire dell’anno, pure il Comune ci metterà del suo presentando uno dei suoi nuovi progetti di recupero. Quello di una vecchia fabbrica con il quale “accendere il cambiamento” nel delirio urbanistico chiamato “Macrolotto Zero” e “Chinatown”.

ex-rifinizione-vannucchi-19E’ nell’estate del 2015 che le fabbriche abbandonate cominciano a uscire dal loro breve medioevo. E non è un caso che nei mesi successivi altri spazi industriali abbiano cominciato a cambiare forma — prima di tutto nella mente dei proprietari — e un anno dopo stiano diventando negozi, atelier, sale di posa, coworking, centri di ricerca e molto altro ancora. Si conservano le strutture, si lustrano i pavimenti, si reinventano le destinazioni. Prato nel frattempo si scopre città di architetti e urbanisti , oltre che di imprenditori, e rendering alla mano studia cambiamenti epocali alla propria facciata. La città sembra insomma ricominciare a vibrare da cima a fondo come raccontava un magistrale documentario Rai del 1967. Solo che adesso i telai non ci sono più, e la nuova vibrazione è ancora tutta da decifrare.

Un buon motivo allora per tornare nella ex Vannucchi e provare a vedere se qualcosa sta cambiando davvero e in che senso. Nel frattempo però, i suoi locali vuoti sono finiti in videoclip musicali, sullo sfondo di set fotografici e quando facciamo il nostro ingresso, ci rendiamo conto anche di fronte agli obbiettivi di una classe di fotografia proveniente da un istituto svizzero. Anche questo è un segno, anche se non ne capiamo la natura. Ci viene quindi il dubbio che il rudere eletto dodici mesi fa a termometro di una città ingolfata, possa ormai aver perso le sue caratteristiche uniche.

Niente affatto.

7. La scala

-C’è nessuno?

Un anno dopo, di nuovo al primo piano e ancora questa frase a gran voce. Abbiamo trovato un diverso tipo di caos nella fabbrica abbandonata, più distruttivo, più rabbioso. E una volta sbucati al piano superiore ci è venuto naturale alzare la voce.

Molte cose sono state calpestate, bruciate, spaccate e gettate dove capita. E il portellone è stato aperto e lasciato così, spalancato sul cortile interno dal quale adesso sale il rumore della pioggia.

ex-rifinizione-vannucchi-20Poi ci sono le tre stanze. Lo scorso anno due porte erano spalancate su qualche tipo di umanità. Dopo un’estate, un autunno e un inverno però, quella ricerca di normalità nel caos sembra perduta. La stanza che fungeva da deposito di biciclette è diventata una discarica. Le altre due invece sono chiuse. Ci avviciniamo.

ex-rifinizione-vannucchi-21-C’è qualcuno?- chiedo aggrappandomi alla maniglia della porta centrale. Nessuna risposta, e la porta non si apre. Allora l’afferro con due mani e tiro con più forza. Tiro ancora e comincia a cedere, cede, si spalanca.

C’è un uomo nella stanza. Sta guardando fuori dalla finestra, le spalle un po’ curve, le mani nelle tasche dei jeans. Prima che si volti mi ripeto d’essere pronto a qualsiasi reazione, a qualsiasi tipo di rabbia. Non è vero, e per due lunghissimi secondi rimango aggrappato alla maniglia. Poi si volta: un uomo sui trent’anni, una rada barba scura e uno sguardo triste, spaesato.

Ci guardiamo e la sento subito la sua paura. Riesco a immaginare come sia montata nell’ultima ora sentendo arrivare la classe di fotografia al piano di sotto, ascoltandoli chiamarsi da un locale all’altro, seguendoli tra le macerie nei loro spostamenti da predoni; e riesco a immaginare come sia cresciuta quando una voce, la mia, ha cominciato a farsi sentire poco lontano, sempre più vicino. Fino al rumore di ferraglia della porta che si apre. Fino a questo momento.

Cosa ha pensato? Cosa sta pensando? Vive in una fabbrica abbandonata e pare arrivare da un punto imprecisato del Nord Africa. Probabilmente non ha un documento che sia uno, non può dimostrare come si chiama, non ha nome, forse nemmeno un’idea di quello che è venuto a fare qui, in Italia e a Prato nel 2016. Oppure no, è un abbaglio, ha tutti i documenti in regola e sa perfettamente cosa vuole da questa città, ma nonostante tutto non ha potuto fare a meno di sostare qui, pronto a rifarsi una vita dopo aver capito come funziona una cosa chiamata “sopravvivenza”.

Sopravvivenza. Quante persone abitano mura dimenticate come queste? Sono clandestini o regolari, italiani o stranieri, disperati, drogati? Oppure sono solo generici sbandati da qualche strada maestra, come li chiamano i giornali e il Comune? Cosa sappiamo di questo flusso di fantasmi trovati sempre più spesso nascosti tra le macerie, dietro qualche cumulo di immondizia, appollaiati in cima a fabbriche abbandonate e inevitabilmente sgomberati?

E quelli che arrivano, come molti sostengono, sono già delinquenti pronti a ingrassare le fila degli spacciatori oppure sono solo persone che si trovano davanti un tipo di scala vecchio come il mondo? Quella scala, per capirsi, che dall’assenza di prospettive sprofonda nella disperazione e poi s’inabissa nella violenza del tutto per tutto? Quanti scalini abbia, invece, e quale sia quello occupato da quest’uomo, nessuno lo sa.

Bisogna fare una distinzione. Questi luoghi non hanno nulla a che fare con la comunità cinese, ovvero con la comunità di cui si parla quando a Prato, da anni e in modo ossessivo, si parla di immigrazione, di clandestini, di abusivismo e di condizioni di vita infami. Non c’entrano niente nemmeno con i profughi, la cui accoglienza è tutti i giorni su tutti i giornali perché scatena paure e razzismi d’ogni sorta e manda in tilt le politiche e le casse dello Stato.

A Prato, i cinesi sono sempre sotto pressione perché sono la comunità più numerosa, se ne fregano delle regole e ultimamente sono pure oggetto delle attenzioni poco gentili degli scippatori nordafricani, che li usano come bancomat. Soprattutto, sono sempre sotto i riflettori perché la loro è una presenza economica compatta e organizzata per generare profitto, per quanto molto spesso illegale.

Guardando questa stanza nuda invece, il letto disfatto sotto la finestra sudicia, le scarpe sistemate in un angolo, si capisce al volo che non ha niente a che fare con la produzione e con il profitto, ma che è solo uno dei tanti limbi nascosti negli interstizi di questa città. Uno di quei luoghi sconosciuti dove speranze di ogni tipo e provenienza si accumulano l’una sull’altra, prima di sgretolarsi nella disperazione. Al contrario dei cinesi, i fantasmi che li abitano non sembrano interessare a nessuno. Eppure, anche se non si conosce il loro numero, anche se non vengono considerati dalle statistiche e quindi non hanno alcun valore, il loro costo sociale ha già cominciato a pesare sulle spalle di tutti i pratesi.

Chi sopravvive in questi luoghi attende il giorno in cui qualcuno vorrà conoscere quale meccanismo li abbia portati o riportati a Prato, su questa scala che si può solo scendere, e quali siano i tempi e le leve giuste per spegnerlo prima che si metta in moto ancora una volta. Invece che demandarne la gestione alle sole forze di polizia e ignorarlo educatamente com’è stato fatto finora.

L’uomo mi fa un cenno di diniego con la testa. Annuisco, provo anche a sorridere, ma lui torna a voltarsi verso la finestra e io non trovo di meglio da fare che tirarmi dietro la porta e tornarmene da dove sono venuto. Tra queste mura, e in decine d’altri edifici come questo, Prato ospita un popolo di sconosciuti senza futuro. Alcuni, forse proprio come l’uomo che guarda la finestra, sono ancora convinti di riuscire a rifarsi una vita, a imbroccare il colpo giusto che renda loro un minimo di dignità. E resistono, soli, nascondendosi dietro portoni sgangherati, su sacchi a pelo lontani dalle finestre, circondati da bottiglie vuote, cibi avariati e cumuli di vestiti sporchi che non possono lavare. Ma è solo questione di tempo. Oggi questa scala, in Italia e altrove, collega solo due lati dello stesso medioevo.

Mentre torno al piano terra e lo sento armeggiare col chiavistello della porta, il mio accompagnatore mette in guardia una studentessa di fotografia salita nel frattempo. “Quella stanza è occupata — dice — stai attenta”. Lei sorride, e con un’alzata di spalle si rimette a scattare.

8. Buco nero

Chinatown/Macrolotto Zero è un quartiere così problematico che scatena discussioni anche il nome col quale chiamarlo. Ma questo enorme cratere nella programmazione urbanistica cittadina è anche il quartiere simbolo di una dinamicità che l’arrivo della comunità cinese ha solo amplificato. Queste strade non dormivano e non dormono mai. E niente, a ben guardare, rimane troppo a lungo uguale a se stesso.

La prima cosa di cui ci siamo resi conto rientrando nella ex Vannucchi è stato un abbandono di nuovo tipo. Meno logico, più violento. La parte bruciata è adesso una specie di spoglia camera oscura per qualche artista difficile da catalogare. Lo stesso è successo al resto dei locali del piano terra. Ogni cosa è stata calpestata, spezzata, strappata o data alle fiamme.

ex-rifinizione-vannucchi-24Una dozzina di studenti si aggira per gli stanzoni con la fotocamera in mano. Si guardano intorno come se cercassero qualcosa e quando pensano di averla trovata si fermano, scattano e riguardano lo scatto. Poi ricominciano da capo. Lo scorso anno, mi spiega l’amico fotografo che li guida tra i ruderi della Prato che fu, toccò alla ex Banci — uno dei sogni più grandi e mai realizzati della città — quest’anno invece cercavano qualcosa di altrettanto “suggestivo” ma più recente: la ex Vannucchi.

Nel locale più grande, non c’è più traccia dell’opera di Moallaseconda e i pattern delle pareti sono stati strappati via quasi del tutto. Resistono invece i graffiti di un anno fa, accompagnati da tag e scarabocchi più recenti. Mentre ci guardiamo intorno e pensiamo che tutto è diventato più grigio, un uomo fa il suo ingresso nel locale. Quando alza la testa si ferma, torna indietro di quattro o cinque passi e si ferma di nuovo. Non se ne va. Facciamo finta di nulla. Per qualche minuto passeggia veloce dall’altro lato dello stanzone, a circa venti metri di distanza. Poi compare una donna. Gli fa un cenno, lui le si affianca e insieme vengono verso di noi.

Sono due giovani adulti dal passo svelto, l’aria da studenti. Lui indossa una tuta grigia e una maglietta, porta una sigaretta dietro l’orecchio e una barba di qualche giorno. Ci passano accanto senza degnarci di uno sguardo. Lei ha lunghi capelli castani, un piercing al naso, un cappottino svolazzante. Li seguiamo scomparire nella stanza in fondo e rimaniamo a guardarci un po’ increduli. Il mio accompagnatore scuote la testa. Gli studenti svizzeri invece continuano a scattare come se fosse tutto normale.

I nostri timori vengono confermati mezzora dopo, quando i due se ne vanno trafelati e noi entriamo nella stanza. Tutto ci aspettavamo tranne vedere questi locali trasformati in rifugio per tossici, ma stavamo sbagliando. Dopo i cambiamenti subiti dalla piazza dello spaccio, era solo questione di tempo e dovevamo aspettarcelo. Anche perché, in fin dei conti, fa parte della stessa miseria che aleggia nel resto dell’edificio, solo con una diversa sfumatura di disperazione e dolore.

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Prato è una città che trabocca di droga. Eroina e cocaina soprattutto, dando per endemiche hashish e marijuana e per saltuaria la ketamina. Eroina iniettata e fumata, cocaina sniffata e fumata. Probabilmente la situazione non è molto diversa da quella di tante altre città italiane, ma a Prato il contrasto allo spaccio e le attività di prevenzione sono rimasti sottotraccia per anni, finendo per trasformare il centro storico da principale attrazione turistica della città a piazza di primaria importanza per lo spaccio toscano.

Le frotte di tossici vecchi e giovani, le iniezioni e le overdosi alla luce del giorno sono storie recenti dentro le mura. Così come l’arroganza degli spacciatori e la frustrazione e la rabbia dei residenti. Hanno riempito più o meno puntualmente ma sempre invano le cronache quotidiane degli ultimi anni. Su come sia stato possibile tollerare tutto questo per così tanto tempo, non ci sono spiegazioni. Nonostante tutto.

“Siamo obbligati a condurre in porto indagini lunghe e complesse per poter risalire alla fonte e arrestare chi gestisce il traffico di droga ad alti livelli. Per contro, il piccolo spacciatore arrestato in flagranza viene subito liberato e dal punto di vista dei costi-benefici non conviene più”. Così diceva il capo della squadra mobile di Prato Francesco Nannucci al Tirreno, il 7 luglio 2014, sulla modifica del dpr 309 del 1990 e, in particolare sul comma quinto dell’articolo 73.

All’inizio del 2015 il Comune ha finalmente cominciato a muoversi, svegliando il Sert, per rendersi conto di un fenomeno che era sotto gli occhi di quasi tutti da troppo tempo. Una presa di coscienza fuori tempo massimo ma necessaria, che ha prodotto alcuni numeri parziali ma non per questo meno impressionanti. Nel luglio dello stesso anno i tossicodipendenti osservati (80 ore) in in centro storico dallo sparuto gruppo di operatori sociali incaricati dal Comune erano infatti 463. Di cui quasi la metà giovani o giovanissimi (18–25 anni, 210). Un’emorragia di nuove dipendenze per un’emergenza sociale che alla fine ha attirato pure l’attenzione della televisione nazionale. Era già il 2016, l’eroina a Prato è finita sulla bocca di milioni d’italiani, i pratesi sono scesi in piazza per protestare contro il degrado e una nuova stagione di arresti è cominciata, portando alla chiusura di alcuni punti di riferimento per lo spaccio in centro storico e alla dispersione dei suoi occupanti.

E’ in questo modo che le fabbriche e i cantieri abbandonati fuori dal centro sono diventi rifugio anche dei tossicodipendenti. Il giro di spaccio è uscito dalle mura per infilarsi dritto dritto in luoghi come Chinatown/Macrolotto Zero. E questi spazi, che l’abbandono trasforma in magneti per molte cose tranne che per una rinascita, adesso svolgono pure un’altra funzione, quella di angoli attrezzati per il consumo, dove sballarsi in pace, lontano da occhi indiscreti.

ex-rifinizione-vannucchi-26A Prato, la lotta alla droga deve ancora cominciare. Lo dicono gli sguardi e le tracce dei tossici-studenti come quelli incontrati nella ex Vannucchi e l’assenza di politiche integrate per la prevenzione. Continuano a ribadirlo anche gli uomini di legge che lavorano a Prato, impegnati in quella che sembra una discreta ma costante campagna mediatica per far capire a Roma che senza nuove leggi e più uomini e più giudici la situazione rimarrà ingestibile ancora a lungo. E ai cittadini, per dimostrare loro che nonostante le difficoltà gli sforzi sono al massimo.

“Il legislatore ha fatto una scelta: ha scelto in modo chiaro di avere carceri meno piene di piccoli spacciatori e più piazze San Marco nelle città. Del resto la politica è fatta di scelte”. Giuseppe Nicolosi, procuratore capo della Procura della Repubblica di Prato. (Il Tirreno, 23 marzo 2016)

9. Com’era una volta

Avviandoci verso l’uscita, ci fermiamo a salutare l’insegnante di fotografia e per qualche minuto osserviamo gli studenti all’opera sul nero e sui tagli di luce che entrano dal grande portellone spalancato sul cortile interno.

Dodici mesi fa il portellone era chiuso, sprangato: solo la porta più piccola a lato lasciava intravedere l’esterno. E’ quanto basta per spingerci in una breve ricognizione del cortile, un quadrato d’asfalto cosparso di rifiuti, calcinacci, erbacce, monitor sfondati e stretto tra un edificio annerito e attorcigliato su se stesso e la copertura del tetto, che scivola inesorabile verso terra come una quinta improvvisata che nasconde alla vista rifiuti e macerie.

ex-rifinizione-vannucchi-27Anche il cortile è cambiato. In mezzo ai rifiuti di ogni genere sono comparsi indumenti, scarpe e altri piccoli oggetti d’uso quotidiano. E non è difficile immaginare quelle quattro assi sbilenche sulle quali sono stati abbandonati due rasoi come l’altarino improvvisato di qualche abluzione mattutina. Dove una volta sostavano i camion in attesa di essere caricati e scaricati, adesso ci si rade sfruttando la luce del sole.

ex-rifinizione-vannucchi-28La portineria una volta era inaccessibile. Chiusa con una grossa catena, forse dopo l’incendio di Natale. Adesso qualcuno ha sfondato il vetro e lasciando la catena al suo posto si è installato all’interno. Ma non è la piccola e ordinata camera da letto al piano superiore che finisce per attirare la nostra attenzione. Ci siamo passati davanti per salire e una volta tornati al piano terra ci fermiamo qualche secondo. Ci inginocchiamo, pieghiamo il collo. Erano talmente sbiadite che non ci abbiamo fatto caso. Le foto della ex Vannucchi com’era una volta.

ex-rifinizione-vannucchi-30 ex-rifinizione-vannucchi-31 ex-rifinizione-vannucchi-32Una bacheca economica, sei grandi foto: lo stanzone, le macchine, le pezze. Quanti anni di sole ci vogliono per sbiadire una foto? Oppure è stato qualche tipo di fuoco? Comunque, la bacheca doveva essere appesa da qualche parte, in questa portineria come in centinaia d’altre sparse nel resto della città. Foto per ricordare a chiunque le guardasse come funzionava, come andavano le macchine, quanto lavoro c’era. Una celebrazione che doveva incutere rispetto.

Quello stesso rispetto che non riusciamo a provare nel ritrovarle sul pavimento, un rifiuto tra i rifiuti, mentre tutto il resto intorno è stato smantellato e venduto. Reputate inservibili come i monitor dei pc lanciati nel cortile, fredde e inutili come i pancali accatastati in un angolo e dimenticate, perdute. È stata la vergogna? La rabbia, qualche tipo di frustrazione? Oppure la speranza, un giorno, di riaprire le porte, guardarle e dire “non è ancora finita”? La Vannucchi è stata tra le prime rifinizioni a chiudere, era il 2007 o forse addirittura il 2006. Il crollo del distretto era già cominciato, ma solo qualche mese più tardi sarebbe diventato inarrestabile.

Mentre usciamo, ci domandiamo se sia davvero giusto che l’eco romantico delle macchine di un’intera città scompaia nella sporcizia e nell’indifferenza dell’abbandono. E se sia con questa amarezza che si debba fare i conti, mentre si aspetta una nuova era, quando ci s’imbatte nei resti calpestati di una civiltà che ha perso la propria battaglia con la Storia.