guido mitidieri

Quattordici minuti. Guido Mitidieri, in arte “gu mi”, chiede di fermarsi per quattordici minuti, prima sette ad occhi chiusi, poi sette ad occhi aperti, mentre il metronomo va e lui continua a fare le sue linee con righello alla mano e biro nera. È metodico nel pulire la penna bic di tanto in tanto, come lo è nel riempire gli occasionali vuoti lasciati.

Questo, mi dice indicando il fazzoletto di carta sporco d’inchiostro, è importante quanto l’opera che sto creando. L’opera consisterà in una serie di pannelli concepiti qui al Soccorso. Ma l’altra parte, essenziale, è la performance artistica svolta da Mitidieri durante la sua permanenza nelle strade del quartiere.

Lo vado a trovare in via Alessandria. Qui gu mi si è disposto appena dietro a una campana per il vetro. Forse per proteggersi, penso, visto che durante i sette minuti al buio, mi sento molto fragile, in balia di questi veicoli che mi sfrecciano troppo vicini. Violenti. Avverto un acuto senso di caducità, come se venuta meno la vista mi mancasse anche il controllo. Quando riapro gli occhi infatti va meglio. C’è lui, Guido, davanti a me, a fare le sue linee rassicuranti: alza i suoi grandi occhi blu, i baffi mi sorridono. Mi guardo intorno: sulla destra, oltre la strada, un negozio cinese; alla mia sinistra, sul marciapiede, una lattina di birra vuota, involucri di plastica, forse il tappo di un termosifone, una mascherina chirurgica. Finita la meditazione, Guido mi invita a scrivere sul quaderno dove altri hanno condiviso qualche pensiero. Lui stesso vi ha appuntato delle riflessioni. (Trovo che gli altri che hanno meditato siano molto più bravi di me a scrivere su due piedi. Io riesco solo a prendere appunti.)

– Mi mancherà questo quartiere, – ammette Guido.

– Cominciano a riconoscermi. “C’è l’artista!” dicono quando mi vedono”. Ma Guido “non crede di essere tanto artista”. Per lui, è solo il modo che gli è proprio di comunicare, di esprimersi come essere umano. Eppure ha avuto la volontà di persistere e scegliere questa strada per sé. Guido Mitidieri, classe 1990, di Montale, non proviene da una famiglia di artisti—la madre è insegnante, il padre ingegnere. Di fatto, capito che faceva sul serio, i genitori hanno accettato la via che si era scelto. Ma questo è successo dopo che Guido stesso ha cominciato a prendersi sul serio. Non è un caso che ciò sia avvenuto quando stava lavorando presso il Casagrande Laboratory in Finlandia, dopo la laurea in Architettura a Firenze. La Finlandia continua a investire milioni di euro nell’arte nonostante sia stata duramente colpita dalla recessione del 2008. Lo fa attraverso il Finland’s Arts Promotion Center, le amministrazioni locali e la lotteria nazionale.

Se l’identità è relazionale, definiamo cioè chi siamo anche in relazione a come ci vedono gli altri, beh, è evidente che Guido sia stato più motivato a prendersi sul serio nel paese scandinavo. E grazie a questo adesso abbiamo non solo un architetto ma anche un promettente artista, appunto. “Mi sono sempre sentito vicino alla struttura invisibile del mondo”, mi dice. “C’ho ragionato sopra e ho cercato di tirarla fuori”.

“Oltre ogni rete c’è il caos,’ diceva Nietzsche”. Nella visione di gu mi, la rete divide, astrae e separa; ciò che crediamo ci salvi può essere una gabbia. Il concetto di linea come salvagente ma anche come zavorra è fondamentale nel suo pensiero. Nella presentazione di Agonia dell’Identità, il progetto partito nel gennaio del 2020 e di cui fa parte anche la residenza artistica al Soccorso, Mitidieri si domanda: “(…) la sensazione di appartenere a una linea di pensiero ci conforta, ci offre il lavoro degli uomini del passato come barriera da utilizzare contro l’avanzare del futuro, ci fa sentire meno soli o almeno un po’, capiti. Se invece si trattasse del più fatale errore?”.

L’errore qui è la sua stessa presenza, ripetuta per qualche giorno, per un determinato lasso di tempo, in uno stesso posto; una permanenza quindi, lunga a sufficienza da creare aspettative, routine, prima di scomparire e quindi creare una mancanza per chi se ne va (Guido Mitidieri) e per chi resta. Di primo acchito, l’”arte di presidio” di gu mi viene percepita come un errore. Le persone si affacciano dai balconi, controllano che sia sempre lì: è una presenza che non “torna”, perché non si capisce. Un errore, appunto. Gli sguardi dei passanti dicono più di tante parole, ma questo che diavolo ci fa qui? pensano.

In una comunità in cerca di sicurezza, gu mi registra, “una telecamera di quartiere”, oppure, dico io, a guardarlo mentre lavora, è una sorta di sismografo umano. Coincidenza, ma non lontano da qui, in via Marengo c’è stato per un periodo uno strumento per registrare le scosse della Terra. Che le linee di gu mi segnalino l’emergere di una sorta di inconscio collettivo del Soccorso? O come la mette Guido, di un “preconscio che comincia a materializzarsi di fronte ai propri occhi”. Forse proprio la rappresentazione dell’inevitabile formarsi di una nuova identità?

I luoghi scelti per la performance artistica non sono casuali. Per esempio, la zona tra via Carlo Marx e via Roma. Mitidieri avrebbe voluto mettere il suo banchino proprio all’interno di uno di quei palazzi dove sono state da poco innalzate delle inferriate per motivi di sicurezza; avrebbe voluto appostarsi nei garage in una sorta di dostoevskiana discesa agli inferi. Quei garage, all’apparenza un po’ squallidi, ma che invece sono stati la salvezza di tanti bambini e adulti durante il lockdown e che continuano a far eco ad una vita sociale che li sovrasta. Per gu mi, avrebbero offerto un punto di vista unico sui balconi soprastanti. Lui avrebbe osservato—e dai terrazzi, si sarebbe fatto osservare. Ma preoccupazioni legate al Covid e altre ad eventuali liti tra condomini, hanno invece portato l’artista in via Trieste e poi davanti all’ex Cinema Astra (fu Cinema Odeon) di via Milano.

Ed eccomi, in via Milano. Sono un po’ emozionata perché questo per me non è un posto come un altro. Qui abitava una mia grande amica che adesso vedo di rado e per un periodo ho passato ore a guardare questo angolo del Soccorso, questo cinema abbandonato (ma allora non lo era, abbandonato), seduta in macchina, dopo averla riportata a casa, c’erano sempre ragioni per restare qui a districare i pensieri, la notte il tempo va più lento, e allora potevamo prenderci il lusso di fare mattina se ci pareva. Questo, insomma, è già un posto che abita nella mia mente.

Arrivo poco prima di mezzogiorno. Subito scorgo una cacca di cane a pochi metri dal banchino di Guido Mitidieri —nel tempo che trascorro con lui mi rendo conto che in questa zona del quartiere ci sono davvero tantissimi cani. Nell’angolo, stazionano anche dei carrelli della spesa abbandonati non si sa da quanto tempo. Soprattutto, durante la meditazione mi accorgo (con piacere) che qui le macchine passano più lentamente perché di fatto escono dal parcheggio retrostante; registro (con meno piacere) il tanfo che regna in questa umida stazione eletta da Guido a luogo di lavoro.

gu mi indossa la sua caratteristica tuta. Scopro che se l’è fatta cucire dalla storica Sartoria Monaco di Agliana, la stessa dove da bambina andavo per i costumi di pattinaggio. La tuta, gialla, ha cuciture che sono tutte linee rette, mi fa notare, e così il rivestimento interno, a riprendere i disegni dei kimono giapponesi. Le linee dovrebbero sorreggerlo dall’errore epistemico, mi spiega sibillino.

C’è un qualcosa di intimo nell’esperienza proposta da gu mi. L’anomala intimità di una relazione tra due estranei che per qualche minuto condividono lo stesso spazio urbano in silenzio. È un’intimità che l’artista invita a condividere con chi accetta di sedersi sulla sua seggiolina pieghevole a meditare. Il fermarsi, insieme, ad ascoltare, ad osservare, fa sentire scoperti. Come se non fossimo più abituati a farlo, specie con un’altra persona, senza telefoni di mezzo. E mentre noi meditiamo, Guido continua la sua opera.

Questa roba dà dipendenza, gli ha detto una ragazza residente nel quartiere. Un’altra gli ha confidato di averlo sognato. Un tipo è tornato per chiedergli, ma tu sei un essere mortale o immortale?

Questa intimità ha sorpreso anche Guido Mitidieri. In fondo, è la prima volta che sperimenta con la meditazione.

– Mi rende molto vulnerabile, – ammette Guido. E subito aggiunge: – Ma anche molto forte.

Per saperne di più di gu mi, visitate il suo sito.


Il progetto “La città continua“, elaborato da da CUT Circuito Urbano Temporaneo, Ricilclidea e dal Servizio politiche giovanili del Comune di Prato è finanziato dalla Regione Toscana sul DD relativo agli interventi sulla sicurezza urbana integrata.

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