vera gheno

Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale, sarà al Centro Pecci giovedì 28 ottobre alle 18 per presentare “Le ragioni del dubbio”, il suo ultimo libro. Insegna all’Università di Firenze, dove tiene il Laboratorio di italiano scritto per Scienze Umanistiche e per la Comunicazione, ed ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca. Con “Femminili singolari” ha sollevato la questione della rappresentanza delle persone nella lingua, del “diritto di abitare” la lingua che si parla. Per prenotare il vostro posto al Centro Pecci cliccate qui.

Verrai al Centro Pecci con un libro che si chiama “Le ragioni del dubbio”, uscito in un momento in cui le persone scrivono tutto e il contrario di tutto praticamente ovunque: non c’è il rischio di parlare ai convertiti quando fai le presentazioni dei libri?
«Si, ma per fortuna non faccio solo presentazioni di libri, sono più trasversale: qualsiasi contenuto culturale, o pseudoculturale, che richieda che le persone alzino il sedere dalla sedia ovviamente parla a una conventicola, quelli che hanno voglia di andare e fare. Mi stupisco sempre tantissimo che la gente stia in fila in quelle formule tipo “fino ad esaurimento posti”, perchè io non lo farei mai: sono una comodona agorafobica, e quindi l’idea di stare in fila senza avere la certezza di entrare mi terrebbe lontana. Invece quando ero al Salone del libro mi impressionava la quantità di gente che se ne stava beatamente in fila anche a sala piena, aspettando che qualcuno magari se ne andasse via. È una bella conventicola comunque, quella a cui si parla in questi eventi. Anche perché non è come incontrare Piero Angela o qualcuno che hai il piacere di incontrare perché è famoso: io non sono un personaggio di questa levatura e il fatto che qualcuno faccia la fila per me è sempre qualcosa che mi riempie di un’enorme gratitudine. Detto questo, più o meno tutta la mia produzione libresca è un po’ col chiodo fisso di risvegliare la necessità nelle persone: a me le parole hanno cambiato la vita, e l’hanno cambiata in meglio. Sono una che ha battagliato a lungo con problemi alimentari, non riguardo mai le cose che faccio, non riguardo mai i miei Ted perché mi faccio schifo. Sono una che ha dei grossi problemi di autostima e personalità: l’unica cosa che mi dà davvero sicurezza non sono il girovita, ma le parole. Arrivata a una certa età ho il bisogno di condividere questa mia scoperta, il fatto che le parole possano veramente risolvere un sacco di problemi».

Infatti volevo chiederti quand’è che ti sei accorta che usare una parola al posto di un’altra ha la sua importanza.
«Non è che ci sia un momento preciso: ovviamente vengo da un contesto particolare, visto che mio papà è linguista, mia mamma è ungherese e ha studiato la lingua. Diciamo che alla parola si è sempre dato molta importanza e quella riflessione su quando usare una parola rispetto a un’altra c’è sempre stata per forza di cose. Si può parlare di una progressiva presa di coscienza e forse di un crescente investimento da parte mia sulla parola stessa».

Ho letto “Femminili singolari” un po’ di tempo fa, e prima anch’io ero dell’idea che i problemi fossero altri. Poi però ho pensato “no aspetta: non è vero, perché se la lingua deve rappresentare la realtà in questo modo manca metà della realtà”.
«Diciamo che il problema non è il benaltrismo in sé: se non arrivi a fine mese è difficile pensare all’importanza delle parole. L’errore è porsi la questione in maniera marzulliana, “o così o cosà”: le varie istanze possono serenamente convivere fra di loro e darsi manforte. È vero che i problemi sono altri ma è anche vero che la lingua ha la sua rilevanza e che occuparsi di questioni linguistiche non toglie niente al resto. È chiaro che ci saranno sempre persone senza equilibrio che magari sono disposte ad alzare barricate su una “a” non messa e a fregarsene del resto, ma qui si rientra negli estremismi: bisogna superare l’idea che se mi occupo di “sindaca” non mi occupo di asili nido, se mi occupo di “presidenta” non mi occupo di donne nelle STEM. Le questioni non sono esclusive».

Anche perché ho l’impressione che manchi la concezione che il problema della lingua si intersechi con tutti gli altri problemi: se io non ho la parola scienziata è perché le donne sono sottovalutate nelle materie STEM.
«Si, questo è assolutamente vero, ma è anche vero che non si parla mai della centralità della lingua per l’essere umano. A scuola facciamo tantissimo esercizio tecnico sulla parola e non si parla mai di perché parliamo, qual è la relazione fra lingua e realtà, che cosa implica usare una parola rispetto a un’altra, qual è l’effetto delle nostre parole, magari parlando con una persona svantaggiata. L’altro giorno ho fatto una presentazione de “Le ragioni del dubbio” e la persona che avevo accanto, che forse non aveva letto bene il libro, ha detto: “Eh, però insomma, tutto questo moltiplicarsi di etichette, LG quella roba lì che non si può pronunciare…”, quindi io lo guardo e gli chiedo “LGBTQIA+? O LGBT+, per i più pigri? Le cose difficili da dire sono “tungsteno”, sono “transustanziazione”, non mi sembra che questo sia difficile“. E lui, maschio, bianco, etero e cis di mezza età mi diceva che “non c’è bisogno di”. Ho risposto dicendo che invece il passaggio dall’ipernominazione è necessario nel momento in cui chi ha una diversità subisce ancora sfighe inusitate nella nostra società. Possiamo parlare del fatto che ci siano troppe sigle nel momento in cui essere parte della comunità LGBTQIA+ non sarà più un problema, quando sarà normale. È anche vero che le persone sono ombelicali, non vanno oltre la loro esperienza personale, e l’esperienza personale non riassume l’esperienza di un popolo o di un’etnia».

Torno alla prima domanda: “Le regioni del dubbio” parla anche di persone che parlano, scusa la ripetizione, di cose che non sanno ma hanno certezze inossidabili sulle cose che non sanno. Che credo sia una nuova branca della psicopatologia, a questo punto.
«Ma no, è la più vecchia: ne parlava già Socrate di “sapere di non sapere”».

“Il dubbio sarebbe il toccasana, e parlare con queste persone a volte è impossibile. Come si fa, quindi?”
«Premesso che capisco la tua frustrazione, ma anche noi siamo quelle persone. Il primo errore che facciamo è quello dell’othering: pensare che noi siamo quelli bravi. Invece il tarlo del tuttologo ce l’abbiamo tutti, e a volte anche sulle cose più sceme: su come si mangia l’aragosta o quanti minuti si bolle l’uovo. È molto facile giudicare e parlare a vanvera, e lo facciamo un po’ tutti: diciamo che c’è chi ha avuto modo di riflettere di più su questi argomenti e avere consapevolezza dei limiti della propria conoscenza. Il vero problema è pensare che quello che si sa basti, e che riassuma il tutto. Ancor più che in termini quantitativi, “quello che so basta”, si ragiona sempre più spesso in termini qualitativi: “il mio punto di vista è quello giusto”. Non ci rendiamo conto che il nostro punto di vista è solo un punto di vista, e che convive con altri punti di vista. E non sono sbagliati o giusti, sono punti di vista. Nella nostra società c’è la prevalenza di un punto di vista che è quello bianco, quello occidentale, spesso quello maschile: mi viene in mente un caso eclatante, soprattutto perché ultimamente ho avuto a che fare con una bravissima linguista tedesca di origine turca che si chiama Kübra Gümüsay che ha scritto un libro favoloso che si chiama “Lingua e essere”. Lei è musulmana, è velata, è una persona illuminatissima e tosta, combatte contro i razzismi e la xenofobia: quando parli con una persona così il tuo paradigma occidentale che “le donne velate sono oppresse, devono togliersi il velo, il segno più grande della civiltà è far loro togliere il velo” viene messo in crisi. Io vengo da un contesto molto progressista, ma per esempio sull’Islam e sul velo avevo dei preconcetti, e mi sono resa conto che il mio è solo un punto di vista: per me il velo vuol dire certe cose, per lei il velo è una rivendicazione della libertà d’espressione. Prima ci rendiamo conto che il nostro punto di vista è solo uno dei punti di vista meglio è. È anche vero che non tutti hanno voglia di fare questa operazione di relativizzazione del punto di vista, ma è una direzione inevitabile secondo me».

In fondo alla sinossi del libro si legge “si decida saggiamente di non aver nulla da dire”, ma viviamo in un momento in cui se non dici niente non esisti. Se su Facebook non scrivi almeno una volta al giorno quello che ti viene in mente sparisci. È possibile riportare in auge l’idea che se non hai niente da dire, o che se quello che stai per dire non è esatto, forse ci devi pensare un po’ di più?
«Quando si fanno questi ragionamenti, che non sono linguistici ma cognitivi, dobbiamo sempre pensare in una dimensione molto ampia, alle generazioni successive. Il mio pallino è di agire contemporaneamente, per quello che si può, sulla vita attuale e su come si possano insegnare queste cose per creare generazioni future più sensibili a queste questioni, e credo sia necessario perché la nostra società sta andando nella direzione di una crescente e progressiva diversificazione: siamo sempre più diversi, siamo sempre meno chiusi nelle nostre sacche mentre prima il massimo della diversità era il “matto del villaggio”. Adesso abbiamo persone diverse per etnia, genere, sessualità, neuroatipicità, disabilità e abilità, status socioeconomico, corpi non conformi, uomini che si mettono lo smalto. Guardavo un piccolo documentario sulla nuova mascolinità, su Timothée Chalamet, l’attore di Dune, ma anche Harry Styles come esempi di mascolinità nuova, molto fluida. Chalamet si veste come gli pare, Styles porta l’eyeliner come le rockstar ambigue negli anni ‘70 e ‘80. Quel tipo di mascolinità non virile si sta affermando tantissimo. È evidente che la nostra generazione di oggi sia diversa da quella di vent’anni fa, ma è anche evidente che la generazione di oggi sia molto diversa da noi, e con questa questione della mascolinità hanno già un approccio diverso: siamo noi indietro su questo punto di vista. Se però vogliamo aiutare le generazioni future ad essere meno xenofobe possiamo anche riflettere su che cosa si può cercare di insegnare: e una delle cose che si può cercare di insegnare, ma lo diceva già Tullio De Mauro negli anni ‘70, è portare la linguistica a scuola. Portare la storia della lingua, il senso della socio linguistica, e spiegare che le regole della lingua non nascono sul pero ma conseguono all’uso, gli usi linguistici sono tanti e vari, e non bisogna più parlare di lingua giusta o sbagliata ma di lingua giusta o sbagliata per i vari contesti. Forse è una delle cose che possiamo fare per dare più consapevolezza di questi “meccanismi di convivenza delle differenze”, come li chiama il mio carissimo amico Fabrizio Acanfora, studioso della diversità e autistico lui stesso».

Infatti ho l’impressione che i ragazzi che hanno un’età che inizia per uno siano molto più avanti di noi, mi sembra che la generazione da trascinare avanti siamo più la nostra che la loro.
«Si, ma il problema è che siamo noi che dettiamo le regole: nella stratificazione sociale sono gli adulti che decidono che cosa è giusto e sbagliato. Dove si rileva l’intelligenza delle generazioni successive? I rilevamenti come gli INVALSI sono chiaramente basati su ciò che noi adulti pensiamo che i giovani debbano sapere. C’è una discrasia, un disallineamento fra dove sono i nostri ragazzi e dove siamo noi. Cerchiamo la loro intelligenza in un luogo che forse non è quello dove la loro intelligenza risiede. È vero che i nostri ragazzi sono più avanti di noi, ma è anche vero che senza volerlo, o forse volendolo, le generazioni più adulte tendono a soffocarli. Dobbiamo essere sicuri che quell’avantismo venga preservato».

È possibile che le generazioni di adulti cerchino di soffocare i giovani perché hanno paura di quello che potrebbe comportare il cambiamento, da un punto di vista ideologico?”
«Forse non consapevolmente, perché non è che siamo tutti stronzi xenofobi, ma è qualcosa che non conosciamo e in cui non ci riconosciamo. Sono paradigmi esistenziali che per molti della nostra generazione, figuriamoci quelle precedenti, sono assolutamente alieni: quindi è chiaro che davanti alle questioni di genere, che toccano tantissimo i ragazzi, la reazione sia “Ah, ma allora uno si sveglia la mattina e decide un giorno di essere uomo e un giorno di essere donna“. Chiunque abbia avuto a che fare con una persona fluida sa che non è questo il punto, giusto per fare un esempio estremo. Al crescere dell’età c’è una progressiva diminuzione della voglia di capire meglio: riprendere tutto e rimettermi in discussione è fatica».

Pensavo anche allo ə (schwa) o all’asterisco. C’è una levata di scudi nei confronti di due simboli, e personalmente non capisco il fastidio che può dare leggere una frase con gli asterischi se significa che più persone possono sentirsi coinvolte in quello che sto dicendo”.
«Qui ci sono varie questioni: la prima è che quando si va a toccare la lingua, che è un fortissimo elemento identitario, è normale che a molte persone dia fastidio. Da parte di alcuni provoca accuse di “non si può fare” perché effettivamente, a livello di sistema linguistico, prima che cambi la morfologia di una lingua ci vuole un cataclisma. Come quando è scomparso il neutro dal latino: non è successo da un momento all’altro, ma c’era una necessità della maggioranza dei parlanti. Questo è sacrosanto e comprensibile. L’altro livello della questione è che la grande maggioranza degli adulti non vede l’esistenza del problema e pensa che la questione di genere sia una moda, e che chi si sveglia la mattina e decide di fare coming out come persona non binary lo faccia perché Timothée Chalamet si mette lo smalto. Non capisce che si possa essere un disagio, un’esigenza sentita, una questione identitaria forte. Se non c’è la maturazione necessaria per vedere che c’è un problema identitario di cosa stiamo a parlare? Quando si parlava di abolire la schiavitù c’erano gli schiavisti bonari che dicevano: “ma i miei neri stanno benissimo, mica si lamentano: hanno un tetto sopra la testa, li faccio lavorare il giusto e non li massacro nei campi, non c’è bisogno di abolire la schiavitù, loro stanno bene”, ed erano convinti di essere nel giusto. Lo so che è un paragone estremo, ma il non vedere che il genere è un concetto che nel giro di un paio di generazioni è profondamente cambiato, che la lingua è ovvio che si dibatta e che forse non basta che Paolo D’Achille (linguista e professore di Linguistica presso l’università di Roma Tre ndr), maschio bianco, etero, cis di mezza età dica “dobbiamo assolutamente, e con un sorriso, accettare il maschile sovraesteso”. Dobbiamo renderci conto che ciò che serenamente il maschio bianco dà per scontato, perché è sempre stato al centro della lingua, non è che uno dei punti di vista possibili sulla realtà. Il maschile sovraesteso è andato benissimo per tanto tempo, e non escludo che torni ad andare bene: ma se ci torneremo sarà con una consapevolezza diversa, la consapevolezza dell’esistenza di una diversità che non deve più lottare per emergere. In un momento come questo, in cui se non sei etero e cis soffri, quello di ribadire la questione linguistica è un modo per sottolineare l’esistenza della questione, che troppe persone ritengono collaterale. Nella sua versione più becera la questione è: ma è mai possibile che ci siano persone che per loro caratteristiche intrinseche, abbiano meno diritto alla felicità?
Faccio un esempio estremo che però a me colpisce sempre tantissimo: le persone con disabilità non hanno diritto all’erotismo, se non arrivi a masturbarti accettalo e ringrazia Dio che sei vivo. In altri paesi ci sono gli operatori e le operatrici sessuali che ti aiutano a masturbarti e a provare piacere, in un paese come l’Italia questa è una cosa cui si reagisce con: “Ah, figurarsi, la masturbazione. Diventi cieco. Già sei disabile, vuoi pure diventare cieco?”. Un diritto fondamentale, come il diritto al piacere, viene negato alle persone solo perché sono disabili».

Nell’Ordine dei giornalisti abbiamo un codice deontologico, e delle Carte che spiegano come parlare in modo corretto di certi temi. È possibile secondo te espandere queste nozioni a tutti?”
«Ora però fammi essere un po’ polemica: il fatto che i giornalisti abbiano gli strumenti non significa che li usino. Ancora, solo sui femminicidi, ogni giorno c’è qualcosa che fa girare le scatole: si torna alla narrazione romantica del femminicidio, le donne continuano ad essere chiamate per nome e non hanno mai un cognome, mentre gli assassini si. Non è che avere gli strumenti garantisca che vengano applicati, ma è certo che si possano dare più strumenti anche alle persone fuori da questi ambiti professionali, insegnando queste cose a scuola. De Mauro diceva che la lezione di lingua, che oggi è grammatica, dovrebbe insegnare la democrazia, e la democrazia passa dalle parole. La lezione di italiano, diceva, è trasversale a tutte le materie e serve a parlare di tutto: la scuola democratica deve insegnare come si possono dire le cose, mentre quella tradizionale insegna come si devono dire le cose. Il problema della scuola di oggi è che il paradigma dell’educazione linguistica è lo stesso di prima che De Mauro dicesse queste cose negli anni ‘70, e non ha nessun tipo di corrispondenza nella realtà e alla lingua viva».

Ultima domanda: ci sono delle parole che secondo te sono particolarmente maltrattate? Che sono usate male in modo costante?”
«Direi che è una sorte comune a moltissime parole. Pensa alle parole come “libertà”, “democrazia”, “popolo”, “leggi”, “dittatura”, che sono completamente svuotate di significato. Come “femminista”, “politicamente corretto”, “cancel culture”, “buonismo”: sono parole che triggherano le persone, che provocano una reazione di pancia e che poi, se vai a raspare un attimo, le persone non ti sanno nemmeno spiegare perché le stanno usando. Questo è il primo gruppo. Poi ci sono le parole che generano engagement, e che paiono inevitabili: “resilienza”, “sostenibilità”, “green”. Queste perdono consistenza perché sono abusate, un po’ come la rucola negli anni ‘80. Sono le parole rucola. La risultante comune di entrambe queste categorie è quella di far andare le parole in aceto: quando le senti in ogni dove e di continuo non le sopporti più. Non c’è una parola specifica che dico di evitare, pregherei l’universo di non abusare delle parole e di farsi qualche domandina specifica su quando usarle: una parola perde di fragranza nei casi in cui la si usa, come direbbe Renè Ferretti, a cazzo di cane».