“Ripararsi” è il titolo del libro della psicoterapeuta pratese Elena Cavaciocchi, nato dall’esperienza maturata in quindici anni di incontri settimanali con persone portatrici di svariate patologie: ictus, infarti, traumi, patologie neurologiche e più in generale persone che improvvisamente si sono ritrovate in un corpo diverso da quello che conoscevano. Un libro che contiene le più importanti e recenti scoperte nel campo della neuroplasticità del cervello e del sistema nervoso centrale ma soprattutto che conduce il lettore “dal buio della malattia, intesa come infermità, alla luce dell’accettare l’unicità del proprio corpo, comprendendone le peculiarità presenti o nuove e acquisendo capacità e conoscenze di sé”, spiega la presentazione. Ci siamo fatti raccontare come è nato.

Chi sei, che lavoro fai e come sei arrivata a scrivere questo libro, perché c’è dietro un percorso di 15 anni di lavoro di gruppo.

«Io sono Elena Cavaciocchi, ho 61 anni e sono una psicoterapeuta iscritta all’albo, e questa è la mia formazione di base, però insieme alla psicologia ho sempre avuto la passione per la danza. Parallelamente alla formazione come psicoterapeuta ho seguito quindi un’altra formazione a Firenze: ho fatto danza classica da bambina, ma poi ho trovato questo studio, lo studio Faggioni, dove si studiava danza contemporanea con una ricerca della forma, della relazione con lo spazio, della relazione con l’altro. Nessuna produzione è uguale, e la Faggioni usava una tecnica che si chiama “composizione”: consisteva nell’arrivare a un movimento che pure è una sequenza mutuata dalla danza classica però poi prendeva altre strade, fino al sentire e percepire le forme, la relazione con lo spazio, con l’altro, con i ritmi. Venivo da un mondo che diceva che la psiche stesse da una parte e il corpo dall’altra: lì ho trovato la loro riunificazione. Tra l’altro, la signora Faggioni aveva iniziato a insegnare a persone con disabilità già dagli anni ’30, quando la parola “danzaterapia” non esisteva nemmeno. C’erano persone da tutti paesi d’Europa, anche dall’America, e lì ho avuto le prime intuizioni su quali potevano essere le funzioni terapeutiche della danza mentre studiavo ancora: in pratica sperimentavo sul mio corpo quello che studiavo in psicoterapia. Se non unifichi la mente con il tuo corpo, con la tua intenzione e con i tuoi affetti, non vai da nessuna parte. Poi 15 anni fa ho iniziato una collaborazione con la ASL in quella che si chiama “attività fisica adattata per disabilità complesse”: allungandosi l’età delle persone ci si ammala di più di malattie degenerative, o magari siamo più bravi a diagnosticarle, fatto sta che ce he sono sempre di più. All’Arca, l’associazione dove io lavoro, iniziavano a venire sempre più persone con disabilità acquisita: non nate con disabilità, ma con una disabilità insorta in seguito, e mi rendevo conto che la modalità di intervento con loro doveva essere nuova, diversa. Tutta questa formazione mi ha aiutato. Ho parlato con la dottoressa Bruna Lombardi del reparto di Fisioterapia e Riabilitazione, e col dottor Palumbo del reparto di Neurologia, e abbiamo pensato di implementare questo nuovo percorso pensato per chi improvvisamente si è trovato in un corpo “nuovo” e per la sua famiglia».

C’è un legame forte fra corpo e mente, ma di solito c’è la tendenza a considerarli entità separate. Come si aiutano le persone ad accettare che il loro corpo è cambiato? Devono ripararsi o accettarsi per come sono diventati?

«Tutti e due: in questi anni ho visto che il primo passo in tutti i percorsi di guarigione o di cura è l’accettazione, che poi è un termine che significa semplicemente fare i conti con quello che è successo e accettare che non sei più rispondente a criteri di valutazione tipici del collettivo. Devi veramente metterti in discussione, quindi inizia un lavoro di accoglienza di questa nuova situazione e di ricerca di nuovi parametri di salute. La prima cosa è accettare questo momento, la seconda cosa informarsi: non posso stare bene se ho un pensiero fisso, e non posso avere la mente libera se mi fa male la pancia. Noi siamo esseri interi formati di tante cose, e più queste si sintonizzano meglio stiamo: non è detto che tutte queste componenti debbano stare bene, ma è certo che sentiamo di essere in un percorso, e che diamo un senso così a quello che facciamo e a quello che ci è successo. La ricerca del senso la possiamo fare insieme, e possiamo trovare insieme nuove forme di pensiero che ci aiutino a vedere nella nostra situazione attuale delle possibilità e non delle “non possibilità”: ci sono cose che non posso più fare, ma ce ne sono altre che posso fare, o che posso fare in un modo diverso. Per le persone è più facile lavorare su questo aspetto facendo parte di un gruppo o si trovano meglio da sole? La prima cosa che facciamo però è inserirle nel gruppo».

Quante persone ci sono nel gruppo?

«Nel gruppo delle disabilità complesse c’è mediamente una quindicina di persone. Non sono poche, però il gruppo funziona come un gruppo d’auto-aiuto se lo sai indirizzare bene. Si genera un flusso d’esperienza che conduce le persone più deboli e più fragili nel gruppo, come quando vai a ballare e non riesci a stare fermo. Il gruppo è un grande facilitatore: di fatto non c’è più l’individuo in quel momento, c’è un gruppo che sta lavorando su un tema, su una musica, su uno stato d’animo, sul contatto. La persona si dimentica un po’ del suo ego, si dimentica dei suoi limiti perché lì c’è tutta gente con dei limiti: e non è semplicemente un male comune, si genera un campo di possibilità laddove, a casa da sola, vivi le impossibilità perchè fai costantemente il paragone con quello che prima potevi fare mentre adesso magari hai bisogno di aiuto per arrivare alla caffettiera o andare in bagno. Questa condizione di paragone ti mantiene bassa l’energia, mentre quando sei lì c’è un’energia molto alta grazie all’esperienza condivisa. Escono diversi da come sono entrati, è successo spesso che dimenticassero il bastone: non perchè succedono i miracoli, ma perchè ritrovano l’elasticità del corpo».

Ci sono anche persone giovani?

«Purtroppo sì: ho lavorato con una ragazza colpita da un astrocitoma, una forma di tumore al cervello. Le persone giovani poi vengono soprattutto a causa di incidenti, traumi cranici. Mediamente altrimenti andiamo dai 65 anni in su. Nel gruppo della fibromialgia invece c’è anche gente molto giovane, e nel gruppo Parkinson c’è stato un uomo che si è ammalato a 38 anni. In questi corsi ho visto persone, badanti, compagni e compagne, moglie e mariti, così sereni e dediti alla persona che amano e di cui si prendono cura sebbene in questo corpo nuovo: non so se con l’età impari ad accettare meglio le cose, ma non è detto che succeda. Ci sono persone che hanno risorse impensabili o che le sviluppano, stessa cosa per intere famiglie: nei miei corsi è inserito anche il caregiver, che paga solo l’assicurazione obbligatoria: vogliamo creare delle buone prassi, cose che loro possono anche fare nel quotidiano».

C’è differenza fra una persona che fa un incidente e si ritrova immediatamente con un corpo diverso e qualcuno che invece ha una malattia degenerativa e la consapevolezza che non può essere fermata?

Per molte malattie degenerative ci sono terapie che possono rallentare davvero molto il decorso: a Prato ci sono persone con un parkinsonismo, o la sclerosi, che fanno footing e tengono la malattia sotto controllo con il movimento. L’applicazione del movimento alle malattie degenerative non è una roba da new age: ci sono stati molti esperimenti condotti attraverso il ballo o la camminata consapevole, un modo di camminare in cui si sintonizzano cervello, volontà e parola con il corpo, ripeto nella mia testa le azioni che vado a fare per camminare, generando una fortissima concentrazione sul movimento in atto. Condensando tutte le mie attività sulla stessa linea ottengo una grande forza e si riaccendono le aree del cervello che, con il Parkinson e altre malattie neurologiche, si vanno spegnendo. Se si riesce a trasformare il circolo vizioso della malattia in un circolo virtuoso le persone non solo fermano il progredire della malattia, ma possono addirittura recuperare: ho visto casi di recupero. Non si sa spiegare, il cervello è un organo complesso, ma succede. La neuroplasticità è una scienza nuova relativamente poco conosciuta, e anche nelle università non viene molto insegnata, ma ci dà grandi speranze sulla possibilità di ripararsi. Il cervello si ripara: hanno scoperto che le aree del cervello non toccate dalla malattia possono prendere le funzioni di quelle che invece vengono “spente” o vengono colpite da malattie o ictus. I neuroni si possono rigenerare, incredibilmente».

Ti occupi anche di persone con fibromialgia, una delle cosiddette “malattie invisibili”, poco studiate e prettamente femminili: da alcuni medici ho addirittura sentito dire che la fibromialgia non esiste.

«La chiamano sindrome idiopatica, significa che non ci sono segni visibili. In realtà la scienza sta andando avanti e stanno trovando dei parametri di alcune cellule: è uno stato di infiammazione costante, che aumenta la sensazione di dolore. Quando si prova dolore ci si irrigidisce di più, o si tende a proteggere l’area mettendo in tensione altre parti del corpo, e la situazione peggiora. L’infiammazione aumenta e dalla muscolatura superficiale passa a quella più profonda, quella viscerale, e coinvolge anche gli organi».

Anche la fibromialgia ha un percorso che fai con i pazienti?

«Certo, è un’AFA riconosciuta, come il Parkinson, le disabilità complesse. In alcuni posti prevede anche l’uso di bagni termali».

Come nasce il libro?

«Ho scritto il libro perchè avevo paura di morire: il primo giorno di lockdown ho smesso di lavorare, ho lavorato solo con i pazienti online, ho smesso di fare i gruppi e ho pensato, serenamente: c’è questa nuova malattia, se morissi vorrei lasciar detto ciò che ho scoperto. Allora mi sono messa al tavolino e ho tirato fuori una serie di appunti presi sia dai libri sia tramite osservazioni fatte sul campo e ho iniziato a rimetterli insieme, e man mano da una cosa sono andata ad un’altra finché non ho fatto un brainstorming fra tutto ciò che avevo fatto e studiato, le nuove frontiere della psicologia e la mia formazione. C’è anche da dire che la psicologia non è quel che sembra: una sua branca è pensata per il maschio bianco, borghese, eterosessuale, ed è una psicologia che normalizza, tende a riportare la persona nei criteri di normalità bianca, borghese, eccetera. Poi c’è una psicologia diversa, che prende in esame tutti i possibili stati di coscienza che attraversiamo: sappiamo benissimo che ci sono diversi stati di coscienza, li abbiamo provati. Parlare fra di noi è uno stato, poi magari compiliamo un F24 ed è un’altra cosa. Perchè devo per forza normalizzare la mia mente? Ci sono studiosi che hanno studiato tutto questo, perchè hanno visto che in alcuni stati di coscienza è più facile guarire, anche a livello fisico: bada bene, non parliamo di miracoli, nessuno si alza dalla carrozzina. Può succedere che lo faccia per due minuti o che riesca a stare in piedi, però, perchè si attivano delle risorse, esattamente come quando diciamo che usiamo una percentuale ridotta del nostro cervello. La psicologia non significa solo andare dallo psicologo perchè ho gli attacchi di panico: crediamo che la psiche sia il deposito di tutte le cose che non hanno funzionato nella nostra vita, mentre in realtà è anche lo scrigno dove troviamo il senso della nostra vita. Alcune tendenze della nuova psicologia ci vengono incontro e ci facilitano in questa ricerca. Per capirsi: dobbiamo vedere le cose da un’altra angolazione, quindi da “io sono così perchè avevo gli attacchi di panico” diventa “a causa del fatto che avevo gli attacchi di panico mi sono messa a studiare tutto questo, e ora posso aiutare altre persone. Ho dovuto passare attraverso quell’esperienza per poi essere utile».

Una cosa è insegnare alle persone che possono riparare se stesse, un’altra è far capire alle persone cosiddette normali che le persone che vengono considerate disabili o incapaci di fare certe cose in realtà possono farne altre. Come facciamo a fare capire che questa persona che noi “normali” consideriamo “rotta” in realtà non lo è?

«Lo sai già, e secondo me lo sanno tutti, soprattutto dopo questi due anni di pandemia. Certe cose non ti lasciano come ti hanno trovata, e questi due anni ci hanno avvicinato al tema della morte: ognuno di noi ha dovuto attivare delle risorse, come se si stesse riparando. Credo che quasi chiunque, ora, sappia che si può essere in tanti modi. Anche quest’attenzione al linguaggio che c’è adesso può sembrare ideologica ma in realtà è molto educativa: cambiare il linguaggio e smettere di giudicare in base a vecchi parametri significa che finirà anche quella mentalità. Le persone normali sono “normotiche”, fra normali e psicotiche: se riesci ad adeguarti a parametri che non ti corrispondono poi perdi delle parti preziose di te, e quello è il momento in cui il tuo sistema, il tuo corpo, ti danno scossoni per fartelo capire affichè tu ritrovi la tua essenza. C’è chi la chiama tendenza attualizzante, o il sé, ma abbiamo tutti un seme che ci spinge alla realizzazione di certi principi, non solo alla realizzazione materiale: questa accettazione della possibilità di essere normali in tanti modi è già nell’aria, significa essere belli in modi diversi».

L’”anormalità” di queste persone però si vede, che sia una sedia a rotelle o un parkinsonismo. Non so quindi se ci sia un disagio in più, magari anche solo all’inizio: pensare che sei a sedere in carrozzina, e la persona con cui stai parlando è in piedi, e magari non sa se stare in piedi o chinarsi, per esempio. Dovremmo imparare tutti qualcosa in più.

«Anche perché, siccome la vecchiaia arriverà per tutti, ci si comincia a rompere a un certo punto o a non corrispondere più a certi standard. Siamo qui per costruire una cultura dell’accoglienza, e le diversità sono ricchezze in tutte le loro forme: si possono imparare dei comportamenti. Quello che hai detto su chi è a sedere in carrozzina non è una banalità, è importante: se stiamo in piedi davanti agli altri c’è un dislivello, dobbiamo stare accanto agli altri. C’è già una sensibilità, impariamo tutti a sederci accanto alle persone quando vogliamo comunicare qualcosa: è già un uso dello spazio, del corpo e della comunicazione rivoluzionario. Mettiamo queste persone a loro agio, mettendo a nostro agio anche noi stessi: la tua domanda è politica. La cura è anche politica, e necessita di cambiamenti di mentalità, così come il cinema abbia l’ascensore o l’autobus sia accessibile a tutti».

In conclusione: cosa servirebbe, da un punto di vista economico e pratico, per aiutare davvero le persone?

«Nessuna palestra fa fibromialgia, per esempio, tranne noi e forse un’altra, perché nessuna palestra può permettersi di prendersi in carico persone fibromialgiche a 20 euro al mese. La cosa di cui c’è bisogno poi, sono i trasporti: non pretendo che siano gratuiti, ma ogni persona che viene al corso paga da 15 a 35 euro a viaggio a seconda della distanza. Non andata e ritorno: da 15 a 35 euro per andare e da 15 a 35 per tornare. Sono 70 euro ogni volta nel peggiore dei casi, in questo modo la frequentazione dei corsi diventa quasi elitaria. Il trasporto gratuito c’è solo per la chemioterapia o la dialisi: il resto sono sempre da 15 o 35 euro a viaggio. In un mese ci sono 4 incontri, a volte 5, quindi puoi immaginarti quanto spendi. Il paradosso è questo: io devo tenere il prezzo basso per poter fare l’AFA e perchè il sistema sanitario mi mandi le persone, mentre i trasporti continuano a costare così tanto».