emanuele bresci

Emanuele Bresci è il terzo ospite di “Dialoghi sui generi”, la rubrica con cui cerchiamo di conoscere meglio gli attivisti Lgbt di Prato che hanno trovato casa lo scorso mese di ottobre nel primo centro Lgbt della città, in via Santa Trinita.

Nome e cognome?
«Emanuele Bresci».

Anni?
«47, ma nel cuore sempre 25».

Che lavoro fai?
«L’insegnante alla scuola primaria. Sono maestro».

Come ti identifichi?
«Uomo cisgender gay. Però devo dire che dico cisgender ma all’interno dell’immaginario gay uso una collana, indosso una passata, ho una certa mia personale non binarietà. Mi definisco la mamma dei miei gatti!».

Sei sempre stato a Prato?
«Si, nato da una famiglia pratese».

Com’è vivere a Prato per un uomo gay?
«Spesso fuori, nel senso che non ho mai frequentato compagnie gay a Prato. Generalmente gli uomini gay a Prato vivono il loro essere gay con altri amici gay. Sono già anni che a Prato esistono compagnie, o le frequentazioni nei locali o su siti di incontri come GayRomeo o Grindr. Non ho mai avuto una vera frequentazione, forse perché non mi sono mai identificato col modello gay e mascolino, cisgender e “per bene”, cioè che non sembra gay e che si autopercepisce come non visibilmente gay. Magari sceglie un abbigliamento piuttosto che un altro, pensa di non “scheccare” e poi schecca lo stesso. È convinto che gli altri non lo identifichino o non ne parlino come gay. Ho cercato una realtà organizzata e ho trovato Azione Gay e Lesbica a Firenze, che è una realtà mista. Nella mia idea ho sempre voluto vivere in una realtà mista, quindi quando abbiamo messo su il Comitato Gay e Lesbiche Prato con bigliettini attaccati alle fermate della Lam per una mailing list, nel 2005, ci siamo rivolti subito a chiunque. Non volevamo un gruppo di soli gay che si ritrovano, tutti connotati nello stesso modo».

Da adolescente, cosa facevi per trovare un posto dove potevi sentirti tranquillo in città?
«Io mi vivo così da quando avevo 30 anni, prima ho finto di essere eterosessuale. Un po’ era anche il fatto che per 11 anni sono stato scout, e anche se la situazione era cattolica il mio ex capo scout è stato “quasi” socio fondatore del Comitato Gay e Lesbiche Prato. Alla fine ci siamo trovati in una grande famiglia. Effettivamente però il mio impegno lo dedicavo al sociale, e in qualche modo sublimavo il mio voler trovare qualcosa. C’era anche un discorso di religione. Vengo da una famiglia non bigotta ma fortemente cattolica comunque e, nonostante un coming out fatto a 16 anni, per un po’ io questa cosa l’ho congelata. Anche se in famiglia non reagirono male. A 30 anni ho chiarito cosa volevo essere a me stesso, e in famiglia. A quel punto ero grande, l’adolescenza me l’ero giocata: mi ero innamorato di un amico ma non glielo avevo mai detto, lo sapevano tutti i nostri amici tranne lui. Gliel’ho detto a 40 anni ed è rimasto molto sorpreso: pensavo lo sapesse, in realtà non lo sapeva. Fossi stato un ragazzino, senza social o gruppo di riferimento, sarei stato molto isolato. E all’epoca ero isolato davvero: a 16 anni chi mi piaceva lo sapevo. Trovai La Pulce, e su La Pulce c’erano gli annunci e scrissi anche una lettera a un signore che non ho mai mandato. Non sapevo come fare a interagire, in questo senso avrei avuto grosse difficoltà. Oggi un sedicenne ha più opportunità, banalmente anche solo con TikTok o Instagram. YouTube è pieno di video che ti danno informazioni. All’epoca io avevo poca roba a disposizione: dai 16 ai 30 capisco perché ho congelato la cosa. Avessi avuto un amico, un compagno, il cugino di qualcuno, ma non conoscevo nessuno e se vedevo qualcuno com’è che potevo approcciarmi? “Scusa, ma te? Anche te?”. Mi trovai davanti un dottore, siccome avevo un problema ormonale che condizionava il mio peso, che mi voleva dare qualcosa per abbassare la prolattina. Io mandai via i miei e chiesi: “Scusi, ma se prendo questo farmaco non è che cambio?“. Lui mi guardò come se io avessi detto qualcosa di incomprensibile, e non ebbe nessuna reazione. Quindi decisi di non prendere il farmaco per paura che mi cambiasse».

E a 30 anni cosa c’era da fare?
«Quando avevo 30 anni a Prato non c’era niente, quindi c’era da fare tutto! Mi resi conto che c’era da fare tutto. Ho scoperto dopo il mondo che esisteva alla stazione negli anni ’60, con i suoi personaggi e soprannomi: abbiamo scoperto dopo che esisteva la Vipera, la Salvadoregna che lavorava in famoso negozio di casalinghi, la Lanciafiamme, tutto questo mondo che un po’ l’AIDS ha fermato perché la paura di contagiarsi ha stoppato tutto. Quel mondo originale lì però, io non l’ho mai incrociato: sono nato nel ‘74 e quel mondo era già scomparso. Non ho mai potuto conoscere questi personaggi favolosi».

Quindi hai passato l’adolescenza nel pieno periodo dell’AIDS.
«Sì: ricordo gli spot in tv, con l’alone viola intorno alle persone. Non avevi informazioni positive, e anche tanti film non lo erano. Ora ci sono film in positivo, ma un tempo no. Philadelphia è un bellissimo film, ma fa venire un’ansia! Se io reagisco male guardando Brokeback Mountain si può capire perché: come mai vuoi rimanere per forza in un posto così omofobo, per stare così male? Raccontano sempre l’omosessualità in un modo triste, una cosa tipo: “Oh, cosa ti è successo?” e invece è anche favolosità, è bella. Luciano, un signore che fa parte di quel mondo pre AIDS, dice sempre una cosa: “Se rinascessi vorrei rinascere gay un’altra volta, ma più gay di così non è possibile!“. Lui ti dice che quello che sei è positivo, ma la televisione non te lo trasmetteva. Era sempre un problema, oggi invece si comincia. Nei Simpson c’è la sorella lesbica di Marge, il signor Smithers è un po’ velato, ma qualcosa si trasmette.* Forse anche perché prima ti facevano vedere i film sull’omosessualità sempre e comunque da un punto di vista politico, mai per far vedere che “oh, sono una persona che fa la spesa, fra l’altro sono anche gay”. E prima ancora c’erano i film in cui gli omosessuali morivano sempre. Hollywood effettivamente aveva delle regole assurde. Possibile che nella plancia dell’Enterprise ci fosse la nera, il koreano, il russo e basta? Ora, con l’ultima serie Discovery, sdoganano un po’ il tema dell’omosessualità e della non binarietà, ma possibile che allora, in questa storia del 2700, non ci sia stato modo di incontrare una vulcaniana lesbica? Dateci un kardassiano trans!».

Ti sei mai sentito in pericolo a Prato?
«Alcune volte, quando abbiamo fatto i banchini pubblici, è successo che arrivasse qualcuno a dire: “Dovete bruciare tutti, io sono fascista”, ma per fortuna non ci è successo molto spesso. A livello personale ho avuto più problemi come insegnante, all’inizio. All’epoca non esistevano i social e il mio profilo ora mi presenta un po’: magari uno va a vedere e si fa un quadro su di me, che può anche essere positivo. All’epoca ho avuto un genitore che ha chiesto di spostare il figlio dove forse sarei tornato a settembre perché non voleva un insegnante dichiaratamente gay. Oppure bambini che mi hanno chiesto della mia sessualità perché altri mi avevano fatto outing, mi avevano fatto outing dall’esterno. “Sei uomo sessuale? Perchè a catechismo ci hanno detto che sei uomo sessuale”. Proprio così, uomo sessuale. E queste cose le ho dovute un po’ gestire. Mi è andata sempre abbastanza bene, ma spesso la scelta degli insegnanti è quella di vivere questa realtà in modo personale: a volte ci sono persone, nel mondo della scuola, che non ne parlano proprio. Non è obbligatorio, ma io magari posso sapere che la mia collega ha il battesimo del nipote, e di certe persone non si sa mai niente. Perché dev’essere un segreto? Io lo dico che ho un marito, anche con chi non mi conosce. Altri magari scelgono di non farlo, perché può diventare un modo per i genitori di attaccarti».

Quando ti dicono: “Non ho niente contro i gay, ma il gay pride mi fa schifo” come rispondi?
«Cerco di essere didattico anche perché penso che, effettivamente, anche la persona che sarebbe da mandare a quel paese alla fine vota, mi sta vicina, la sera passa davanti al centro quando io non ci sono e non vorrei dover rifare l’ingresso del centro ottanta volte. Se un minimo ti coinvolgo, è meglio. Tecnica per la classe: bambini c’è disordine, c’è da mettere in ordine. E se ne fregano. Se invece dico “Bambini, c’è da mettere in ordine, altrimenti il maestro fa le cinque se lo deve fare da solo”: i bambini ti aiutano. Il coinvolgimento crea un alleato o un all’alleata. Se mi presento non mi devi automaticamente dire che sei contrario all’adozione, però succede. Mi dicono “Ah, io ho un sacco di amici gay, però l’adozione…”. Io cerco di essere più morbido, anche se si deve rispondere e non lasciar passare. Se però si crea un alleato magari si riesce a non farlo essere cattivo col vicino di casa gay, perché la cattiveria da qualche parte cade. Forse torna a casa e se la rifà con la figlia trans o che vorrebbe fare la transizione. Dobbiamo essere morbidi ma decisi: non si deve incassare, si deve sempre far capire che non si accetta di subire. È per questo che abbiamo fatto un centro e ce lo siamo pagato, è per essere visibili. Se chiudi gli occhi io non scompaio: se chiudi gli occhi non mi vedi, ma io ci sono. Molte persone invece non vogliono vedere».

*P.S. Il signor Smithers ha trovato l’amore in una delle ultime puntate de I Simpson e avrà, finalmente, il suo primo fidanzato ufficiale. Dopo 31 anni di trasmissione.